Da Torino a Firenze, pensando a Roma

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    Si fece in fretta a dire che quei cinquanta morti rimasti sui marciapiedi del centro di Torino alla fine della protesta erano stati inutili e che la repressione guidata dal generale Lamarmora aveva avuto la mano troppo pesante. Una voce messa in giro per calmare gli spiriti suggerì che a sparare sui civili non erano stati i ragazzi sabaudi, bensì truppe venute da lontano, inesperti soldati del Sud, e così facendo concorse ad alimentare un risentimento destinato a non avere epilogo. I giornali raccontarono che i fanti si erano accaniti con sciabole e baionette senza alcuna intimazione preventiva: avevano anche fatto fuoco sui capannelli e i cortei improvvisati, i maledetti militari! C’erano uomini e donne di ogni età, radunatisi per esprimere il dissenso per il governo Minghetti e l’intesa con la Francia di Napoleone III che trasferiva la capitale del giovane Regno d’Italia da Torino a Firenze. Si sentivano traditi.

    La Gazzetta del Popolo lo scrisse a chiare lettere, riuscendo ad abbattere il presidente del Consiglio, ma non a cambiare le sorti della Storia. Prima, però, il malcontento fu affrontato col fuoco e le fiamme, la cavalleria e l’artiglieria, coi modi spicci che erano l’uso del tempo. Successe il 21 e il 22 settembre 1864. Tutti sapevano che il destino della città era segnato, appena due settimane dopo la proclamazione dell’unità nazionale il parlamento aveva approvato l’ordine del giorno che indicava Roma quale nuova capitale, proclamazione di principio visto che la città eterna era ancora nelle mani del papa re. I piemontesi avevano digerito l’evento con qualche difficoltà, eppure alle fine se n’erano fatti una ragione, era un atto che professava la determinazione a completare il progetto e in quanto tale andava accettato. Si calmarono pensando che il trasloco del potere dal Po al Tevere era un’eventualità indeterminata e, certo, non immediata.

    Lo stesso Cavour aveva trovato modo di sottolinearlo nei suoi appassionati discorsi del 25 e 27 marzo 1861. Sarebbe accaduto, un giorno. Non domani, non subito. Magari si sarebbe potuto ancora cambiare idea. Invece capitò qualcosa che agli albori del regno non poteva essere previsto. Il presidente Minghetti siglò in quell’autunno tragico un patto segreto con Napoleone, contratto che barattava il ritiro delle truppe francesi da Roma con l’impegno da parte dell’Italia a non invadere lo Stato Pontificio. L’imperatore francese, che si fidava e non si fidava, disse che avrebbe firmato solo se la capitale fosse stata trasferita da Torino a Firenze, gli pareva una garanzia per il Vaticano. Gliela fecero passare, anche perché fra le tante reciproche riserve c’era quella che attribuiva a Vittorio Emanuele II la libertà di intervenire nella città santa in caso fossero scoppiati dei moti rivoluzionari, cosa che riconosceva di fatto i diritti dell’Italia su Roma.

    I torinesi la presero malissimo. Era vero che la città era divenuta capitale per forza di circostanza, per suggellare l’unione fra la dinastia sabauda e la nazione finalmente unita. Accolto con grande entusiasmo popolare, l’evento trovava Torino piuttosto impreparata, priva persino di un emiciclo parlamentare capace di ospitare i 443 deputati eletti ai primi di febbraio del ’61. Li avevano parcheggiati in un edificio provvisorio nel cortile di un palazzo Carignano che allora aveva la sola ala di mattoni del Guarini. Tutto pareva provvisorio come il regno stesso per il quale Cavour riteneva necessaria una discontinuità, con il secco passaggio dal vecchio al nuovo, da Torino a Roma. La città della Mole Antonelliana in costruzione già da un anno era nel 1864 un pulsante centro da 200 mila anime, la metà delle quali non era nata nella provincia.

    C’era la ferrovia per Genova e i capoluoghi principali più vicini, l’analfabetismo imbrigliava meno del 30 per cento della popolazione, l’Università contava oltre 2.000 studenti. La burocrazia amministrativa e giudiziaria dava lavoro a 8 mila persone, mentre il 14 per cento della popolazione era impiegata nei servizi domestici. Ai margini urbani nascevano le prime industrie e la sola Regia Manifattura del Tabacco occupava duemila operaie. Era l’inizio di qualcosa che si pensava sarebbe stato molto più grande, il frutto d’un desiderio di metamorfosi che avrebbe saputo coniugare la tradizione sabauda con un dinamismo imprenditoriale e scientifico, circostanza che oggi potrebbe far dire non è cambiato nulla . Il titolo di capitale aggradava ai più. Vederselo scippare ebbe conseguenze inattese e drammatiche.

    I cinquanta morti e i 130 feriti contabilizzati dalla commissione istituita per indagare sul caso resero il trapasso ancora più grave e doloroso. Giovanni Battista Bottero, direttore condottiero della Gazzetta del Popolo, tuonò contro il presidente Minghetti, parlò di affronto pesante per Torino e di umiliazione inammissibile per la dignità nazionale. Come buona parte della classe politica piemontese, egli vedeva nell’intesa coi francesi la rinuncia definitiva a Roma, e tutto gli appariva come un gesto di sottomissione nei confronti dell’imperatore. Massimo D’Azeglio, inizialmente diffidente, si convinse alla fine che Firenze fosse un sacrificio inevitabile imposto da un tristo trattato , di cui nessuno aveva saputo nulla e, sino all’ultimo, nemmeno il baffuto inquilino del palazzo Reale. Torino appassì di conseguenza, come un fiore d’aprile colpito da un’improvvisa gelata.

    Quando nel settembre 1870 l’esercito piemontese fece breccia a Porta Pia, la città aveva smarrito dai 20 a 30 mila abitanti rispetto a quando era capitale e la ripresa avrebbe richiesto anni. Col cuore spezzato , per citare ancora D’Azeglio, la città aveva dovuto rinunciare a un cumulo di fatti, di tradizioni e memorie onorate. Capitolò anche Marco Minghetti, costretto a dimettersi il 28 settembre 1864, colpito in modo rapido e inatteso come i cinquanta caduti di sei giorni prima.

    Nel giugno successivo, anno domini 1865, si completò il travaso di potere, la corte e i ministeri riaprirono sulle sponde dell’Arno. Il Palazzo reale fu declassato al rango di residenza temporanea dei Savoia per le visite nella terra natia. Torino si arrese al nuovo mondo di cui era stata l’architetto e sulle vittime dei moschetti cadde uno spesso silenzio. Morti inutili, si fece presto a dichiarare. Morti che nessuno aveva voluto, nessuno aveva evitato e di cui nessuno, come accade sempre in queste contingenze, aveva più voglia di sentir parlare.

    Marco Zatterin
    corrispondente de La Stampa da Bruxelles,
    autore di numerosi saggi e di Il gigante del Nilo e Trafalgar

    Pubblicato sul numero di gennaio 2011 de L’Alpino.