Così ci vede un non alpino

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    Io non sono alpino, ma c’ero dove c’erano loro. Ero con loro e li ho visti. Li ho visti gli alpini e mi sono imbevuto della loro alpinità. L’alpinità è una sensazione molto intensa e pregnante. Ma non chiedetemi di definirla, non ne sono capace e immodestamente sono del parere che non sia possibile farlo. Posso dirvi che a me è apparsa come una grande forza positivizzante, fatta di moltissime piccole cose: schegge di incoscienza, frammenti di entusiasmo, residui di ideali, brandelli di utopia, briciole di saggezza e molte, molte tessere colorate di umanissimo amore per il prossimo. Un mosaico insomma. Un mosaico particolare, tridimensionale, cangiante, duttile, refrattario.

    Li ho visti, gli alpini, operare attrezzati di tutto punto solo e soltanto di buona volontà, modestia, dedizione, esperienza, mestiere e furbizia. Li ho visti utilizzare, come pochi sanno fare, l’antica insuperabile arte dell’arrangiarsi. Li ho visti riuscire in tutto. Portare a termine qualsiasi lavoro intrapreso, senza mai ostentare un pur comprensibile autocompiacimento. Li ho visti adattarsi alle esigenze più diverse, polemici forse, ma senza reticenze. Li ho visti operare con determinazione e mano esperta, come nei giorni di gran vento, ed era una sfida il procedere di bolina tra le raffiche ingiuriose, il cappello esageratamente calcato sul cranio, le penne sfrigolanti come giunchi su colline deserte. Sul viso, dipinta dall’anima, una maschera sfida Eolo inquieto. Sulle bocche mugugni, vapore, e frasi blasfeme, ma come preghiere.

    Li ho visti accarezzare bimbi, bimbi pur essi, con mani imponenti e dolcissimi occhi, dentro le barbe irsute. Li ho visti portare minestra o scodelle di latte, rasenti, ad anziani tremanti, come solo sanno fare i paggetti di Buckingham Palace. Li ho visti distribuire pane e sorriso e la gente, distratta, che lasciava lì il pane. Li ho visti dissotterrare l’istinto di madre dal cuore impaurito di vedove antiche dal respiro ansimante e peli sul mento. Li ho visti generare nel ventre di donne stressate il trasporto incosciente che apre valenze. Li ho visti coltivare l’orgoglio nell’istinto dell’uomo ferito dal caso. Li ho visti, è un miracolo forse, impregnare il campo, le tende, i giorni, le notti e la gente di una cosa preziosa, la fiducia che porta il sereno.

    Li ho visti vuotare bicchieri e riempire col canto le sere precoci aspettando le Pleiadi. E c’era la gioia di vivere in quei canti. Li ho visti tacere di fronte alla dignità ferita di un uomo e ascoltarne in silenzio il dolore. E c’era la pietas in quel contegno. Li ho visti guardar la bandiera, vilipesa e sfrangiata da madama Tramontana e dirsi: regge! E c’era l’orgoglio in quel breve pensiero.

    Li ho visti, gli alpini, e li ho riconosciuti uno ad uno. Sono loro, sono gli stessi che uomini come Giulio Bedeschi e Mario Rigoni Stern hanno conosciuto ed amato. Anagraficamente non saranno il ten. Cenci o l’alpino Tourn, il serg. Garrone o il conducente Scudrera, il puntatore Coltrin né l’infermiere Zoffoli o l’attendente Milàn. Ma le facce son quelle, gli occhi, le mani, le barbe son quelle, e se questo non basta io che non sono alpino posso dirlo: il cuore, con tutto ciò che ne consegue, è lo stesso.

    Io, che non sono alpino, c’ero all’ingresso della cripta di San Francesco ad Assisi quando, un frate con le spalle un po’ curve, la faccia paciosa e l’epa imponente, rivolgendosi ad un alpino che entrava col cappello in mano, gli ha detto: può tenerlo in testa. Quel cappello va portato sempre.

    Bruno Ostacchini