Conquista alpinistica

    0
    58

    Su come gli alpini del Bassano, seguiti da quelli del Clapier e dagli altri, il 10 giugno 1917 abbiano potuto conquistare (se pur temporaneamente) l’Ortigara è sempre rimasto un mistero o quasi. L’importanza storica del fatto è enorme ma di difficile soluzione: era morto nell’assalto il comandante di battaglione, maggiore De Vecchi, morti i tre comandanti di Compagnia e numerosi comandanti di plotone. Lo stesso battaglione, quasi del tutto annientato, si ricostituì con i complementi anche nella fase successiva alla conquista e dovette essere impiegato in altre sanguinose battaglie.

    In più erano perse del tutto le documentazioni di reparto nelle concitate fasi successive e non rimaneva quasi traccia di quanto compiuto da quegli ardimentosi alpini-alpinisti che riuscirono con la tenacia leggendaria e la determinazione che diremmo è esclusiva degli alpini, a risolvere a proprio favore, con immenso sacrificio di sangue, anche la più intricata e difficile delle battaglie. Infatti, quelli che dalla Caldiera, sotto il tiro preciso delle mitragliatrici nemiche riuscivano a passare il vallone dell’Agnella si addossavano alla ripidissima costa dell’Ortigara dalle parti del famoso “Pozzo dei feriti”.

    Risalendo il costone verso la cresta più alta, si trovavano di fronte almeno tre muri di reticolato ben più alti della statura di un uomo e profondi 5-6 metri! Il potente bombardamento preventivo non aveva che appena scalfito quei reticolati e se vi era tra qualcuna delle tre barriere un mezzo varco, questo era battuto con tiro preciso dalle mitragliatrici inesorabili della linea Mecenseffy (trincee strette e profonde tre metri con una retrostante linea parallela tutta in galleria). Di fatto il compito di passare da quella parte era un compito impossibile per chiunque. Conquistato al fianco destro il Passo dell’Agnella, si avviarono dunque gli alpini del Bassano con movimento aggirante, per lo stretto sentiero ai piedi delle rocce nord, verso il Passo di Val Caldiera.

    Qui, percorsi forse 300 metri, tra le verticali rocce a sinistra si insinua un canalone. Occorreva andarlo a conoscere, cosa che nessuno dei molti scrittori si è mai curato di fare, anche perché sono evidenti le difficoltà alpinistiche e dunque si tratta di terreno riservato a rocciatori. L’amico alpinista Eugenio Cipriani in quello scorcio di tempo (una quindicina di anni fa) si era prefissato di aprire lungo la verticale bastionata che precipita verso la Valsugana sul sentiero, una serie di nuove vie di roccia, cosa che puntualmente fece. Quando si trattò di salire anche il canalone, pensò di chiamarmi avendo intuito che si potesse fare qualche scoperta legata alla storia bellica.

    Superato un breve saltino iniziale, se ne presentava uno più alto e difficile, ma sulla sinistra di questo si apre un tunnel: una specie di tubo di roccia tutta frastagliata, che saliva obliquo a superare il salto e finiva presso una vasta grotta situata al centro del canale. Qui, le difficoltà erano davvero serie, perché sarebbe occorso superare un vasto tetto o gettarsi sulla parete alla destra dove pure le difficoltà non erano certo banali. Nella vasta grotta evidenti segni di presenze militari italiane: cartucce, resti di legno di una scala a pioli, cianfrusaglie ben conosciute ai cercatori di reperti. Sorgeva naturalmente la domanda: “Come avevano potuto gli alpini superare quella difficoltà alpinistica, non certo usuale a quei tempi?”. Noi uscimmo a destra traversando in parete e con un tratto di 5°-6° grado, superata una parte aggettante, riuscimmo a toccare la parte alta e finale del canalone, ma era evidente che di là, in precedenza, non era passato nessuno. Come avevano fatto allora? Mi venne in mente che la conquista era datata 10 giugno, che l’inverno 1916-’17 era stato uno dei più nevosi della guerra e che si trattava di un canalone rivolto a nord ad una quota intorno ai 2.000 metri.

    Combinate le cose ne usciva la possibile soluzione: dentro il canalone c’era ancora un mucchio di neve accumulata sotto il salto e, risalita la neve, un pezzo di scala era sufficiente per saltar su senza eccessivi problemi. Nessuno ci aveva pensato? Gianni Pieropan, storico particolarmente dedito alle ricostruzioni di quei fatti, aveva scritto in un suo celebre libro: “Si delineava infatti sulla destra, l’incavo del Passo di Val Caldiera, unico punto dove il ciglio dell’Altipiano consente di affacciarsi sulla Valsugana senza provare il capogiro. Non esistono vie di mezzo, o si raggiunge quella meta, oppure si tornerà indietro inesorabilmente sconfitti!”.

    Esisteva invece per gli alpini del Bassano la via di mezzo, intesa in quel difficile canalone e proprio per quella essi salirono e vinsero. Eppure un accenno esisteva su quanto fatto dagli alpini in quel frangente, era un accenno di parte “nemica” (poco visto dagli scrittori italiani) ma di somma importanza storica, perché, se esiste una impresa tra tutte memorabile, in forza del mare di sangue versato dagli alpini per quell’altare della Patria che è l’Ortigara, questa è proprio la conquista della quota austriaca la quale determinò automaticamente il cedimento dei difensori presi da tergo.

    L’accenno ci viene dal colonnello brigadiere Adolf Sloninka von Holodow, che in una foto della celebre Hilfsplatze (il posto di soccorsoinfermeria austriaco posto sopra lo strapiombo in un angolo morto riparato dal tiro italiano proprio allo sbocco del canalone), annota come didascalia che passando da qui, gli alpini hanno preso alle spalle il 20° Feldjaeger. Un appunto senza tanti fronzoli ma rivelatore di quanto successe tra le nebbie e il fumo della battaglia, in un giorno memorabile la cui data tutti dovremmo fissarci nella mente e passare di là per vedere “de visu” cosa sono stati capaci di fare i nostri alpini.

    Bepi Magrin