Comprendere il passato

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    Il Centenario della Prima guerra mondiale costituisce sicuramente un’importante occasione di crescita e di auto-coscienza, per l’intera comunità nazionale e in particolare per le generazioni più giovani. Evitando certo il nazionalismo retorico del passato, ci è richiesto invece un approccio prudente e umile. Assieme a tante belle iniziative, si infittiscono infatti ovunque mostre fotografiche, manifestazioni e spettacoli anche affascinanti e suggestivi, ma banali e semplicistici nell’interpretare la realtà tragica della guerra.

    Secondo questa diffusa chiave di lettura, dal 1915 al 1918 tutto avvenne per l’accecamento bellicista dei politici, e per gli interessi di pochi, sotto il segno di una retorica patriottarda e antipopolare. La Prima guerra mondiale non va immeschinita a una follia collettiva, o ridotta al complotto di alcuni sinistri personaggi. A questo riguardo, sapere un po’ di storia contemporanea ogni tanto serve.

    Penso che si possa dire, senza essere accusati di ottimismo storicista, che l’immensa tragedia qualche effetto positivo lo ha prodotto: spazzando via (ripeto, nel modo più tragico) una società europea aristocratica ed elitaria; portando all’indipendenza alcune nazioni europee (la Polonia, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia che rimpiangiamo); modernizzando in modo decisivo la Turchia (con Atatürk e con la laicità dell’esercito turco che oggi tanto rimpiangiamo), e il Medio Oriente tutto. Anche nella società italiana ci furono importantissime novità: senza la guerra forse non ci sarebbe stato l’ampliamento del suffragio universale maschile (introdotto nel 1912 ma limitato agli ultratrentenni e ai più giovani solo con particolari requisiti), coi partiti di massa e il coinvolgimento del mondo cattolico nella vita della nazione.

    Sturzo tra l’altro nel 1919 mise nel programma del PPI il voto alle donne (come del resto altri partiti). Sarà che quando ero bambino nel cortile della scuola delle suore cantavo “Il Piave mormorava”. Sarà che un certo tipo di localismo che rinnega la nazione non mi è mai piaciuto. Ma l’attenzione ai soli diritti individuali – secondo cui conta la coscienza singola del disertore; non conta niente lo Stato, il popolo e la nazione, il destino “collettivo” di una società – mi sembra un errore e una forzatura. È ovvio che il nostro sguardo sul passato non può che essere condizionato dai nostri valori di oggi; ma appunto, bisogna fare lo sforzo di “storicizzare”, di collocarsi nel passato, di giudicare la moralità dei comportamenti secondo i parametri di allora, senza applicare ad essi, meccanicamente, i valori di oggi. Io credo che questo sforzo di serietà lo dobbiamo ai morti nelle trincee. Per restare all’interno del mondo cattolico, al quale appartengo, lo dobbiamo ai laici cristiani di quell’epoca.

    Faccio l’esempio di mio nonno, cattolico a 24 carati, che non era un pazzo esaltato, nel 1915 aveva 37 anni e cinque figli, ma voleva partire volontario. E dobbiamo anche, per esempio, cercare di capire le ragioni che indussero tanti cappellani militari a comprendere la guerra, o addirittura a voler partecipare. Fra i tanti, ricordo i nomi ben noti di Primo Mazzolari, di Angelo Giuseppe Roncalli, di Giulio Bevilacqua che anche lui volle a tutti i costi arruolarsi. Non sono tra i peggiori preti del Novecento italiano. Insomma, dare solo la colpa ai potenti e ai generali (che certo di colpe ne commisero, e molte), o addirittura esaltare la diserzione, il “tirarsi fuori”, come talvolta si sente fare, mi sembra davvero una sciocchezza.

    Così come mi è sempre parsa inaccettabile un’altra scelta che ha avuto (in altri tempi) un certo seguito almeno nel dibattito pubblico, come l’obiezione fiscale alle spese militari; una scelta che nasce dalla stessa cultura astratta e un po’ velleitaria. E certe interpretazioni semplicistiche appaiono tanto più fuori luogo oggi, in un momento nel quale i soldati italiani – impegnati sino a poche settimane fa nell’operazione Mare nostrum – hanno scritto per universale parere una pagina molto bella. Se la Marina italiana non avesse mantenuto una buona, e forse buonissima efficienza, avremmo sulla coscienza non so quante migliaia in più di morti in mare.

    Così come hanno meritato plauso e ammirazione altri reparti dell’esercito impegnati negli scorsi decenni nelle missioni internazionali. Tra di essi gli Alpini via via presenti in Libano, nel Kurdistan, in Mozambico, nel Kosovo, in Afghanistan.

    Gian Maria Varanini
    Professore Ordinario di storia medievale all’Università degli Studi di Verona