Cinquant'anni fa sul Balmenhorn veniva posato il 'Cristo delle vette'

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    La Statua, pesante una tonnellata, fu portata dagli alpini a pezzi e montata sulla cima, a quota 4.170.

    DI UMBERTO PELAZZA

    I naviganti avevano immerso un Cristo benedicente nella salsedine dei fondali marini: perché non innalzarlo anche nel biancore delle nevi alpine?Non un'ennesima vetta dedicata al Signore delle cime, ma la realizzazione di un grande sogno coltivato dallo scultore torinese Alfredo Bai, comandante di una formazione partigiana alpina durante la Resistenza e trasformato in voto nel periodo della lotta armata: se fosse tornato a casa sano e salvo avrebbe scolpito e fatto erigere ad alta quota una statua del Redentore dalle misure eccezionali, a ricordo dei Caduti di tutte le guerre e a protezione di coloro che affrontano i pericoli della montagna. Nato in una stalla come Gesù di Nazaret, il Cristo delle Vette fu modellato a sezioni e fuso nel bronzo di vecchi cannoni rottamati col metodo celliniano della cera persa. Una sottoscrizione popolare, patrocinata dalla Gazzetta del Popolo, assicurò la copertura finanziaria.

    Nella notte del 28 luglio 1955, al chiarore delle fiaccole, quindicimila persone, fra le quali i reduci del K2, accompagnarono la statua, alta m. 3,60 e pesante una tonnellata, nel santuario torinese della Consolata, dove rimase esposta per tre giorni. Suddivisa quindi in undici pezzi, raggiunse su mezzi militari il territorio valdostano, risalì la valle del Lys e, dopo una sosta a Gressoney Saint Jean, concluse il suo pellegrinaggio tra due ali di folla commossa e plaudente a Gressoney la Trinité, ai piedi del Monte Rosa. La scelta della vetta era caduta dapprima sul Cervino, ma l'esile cresta, oltre ai problemi di trasporto, non offriva garanzie di ancoraggio e sarebbe stata meta del solo alpinismo d'élite.

    L'attenzione si era allora spostata ai 4.170 metri del Balmenhorn, una solida scogliera rocciosa affiorante dal ghiacciaio del Lys, non lontano dalla displuviale svizzera. In una capanna a poca distanza dalla vetta aveva bivaccato nel 1884 un giovane sacerdote alpinista diretto al colle Zumstein: si chiamava Achille Ratti e nel 1922 sarebbe diventato papa Pio XI. A Gressoney il prezioso simulacro fu preso in consegna da un reparto di quaranta penne nere, scremate alla Scuola di Aosta e alle cinque brigate alpine, reduci da un duro allenamento di oltre due mesi tra Monte Bianco e Cervino, cime comprese, imposto e condotto dallo smalpino capitano Costanzo Picco, che tre anni prima aveva portato un' intera compagnia in armi sulla Gran Becca. Suo validissimo coadiutore era il maresciallo Attilio Bosio.

    Il 10 agosto 1955 ha inizio in modo insolito (le vie del Signore sono davvero infinite) l'avventura montana del Cristo delle Vette, con i suoi undici pezzi che da Gressoney (quota 1.637) raggiungono i 2.367 metri del lago diga del Gabiet sul carrello a cremagliera di una società idroelettrica. Sulla sponda gli alpini ferrovieri si trasformano in marinai d'acqua dolce, Picco è proclamato nocchiero pro tempore e su una chiatta metallica a fondo piatto, con quattro traversate, i carichi vengono traghettati a oltre un chilometro sulla riva opposta. Non ci sentivamo affatto marinai ricorda l'allora ventunenne Dario Nicoli ci siamo presi vento e pioggia, il barcone scarrocciava e ci vedevamo a bagno da un momento all'altro . Allo sbarco i pezzi passano sulle spalle degli uomini, compresi i due più pesanti (123 chili), ai quali però i sei muli in attesa all'alpe di Gabiet oppongono un deciso rifiuto scalciando e sgroppando, immemori e degeneri discendenti di quel quieto asinello che la domenica delle palme era entrato in Gerusalemme portando in groppa un Cristo in carne e ossa.

    Per rispetto all'illustre passeggero gli alpini ricacciano in gola gli inevitabili moccoli e sostituiscono i cocciuti quadrupedi con barelle portaferiti rinforzate da asticelle di ferro: ai primi nevai sono già state approntate alcune ‘akie’ (slitte metalliche a barchetta). Il 4 agosto tutti i fardelli si trovano ammassati ai 3.647 metri del rifugio Gnifetti e dopo la necessaria sosta prende avvio la spola con la vetta, proprio nel momento in cui stanno discendendo verso il rifugio gli escursionisti, con meta la capanna Margherita, respinti dal maltempo. Ricorda ancora l'alpino Nicolì: Eravamo in undici, pestavamo neve molle, cominciò a nevicare e poco dopo ci arrivò addosso un vento del diavolo (che sia stato proprio lui, per legittima difesa?n.d.r.) e le bandierine volavano. Ad aprire la strada c'era la testa di Cristo, pesante oltre cinquanta chili, ma abbiamo voluto dividerci il privilegio spalleggiandola a turno: anch'io ho fatto il mio tratto .

    All'ultimo cireneo, l'ossolano Arioli, è riservata la prodezza finale sul ripido ponte di ghiaccio della crepaccia terminale. Dieci giorni di fatiche improbe, 2.500 metri di dislivello, venti quintali di materiali depositati in vetta, dove è giunto intanto dal rifugio lo scultore Bai, che in vita sua non aveva mai superato i duemila metri: soffre di vertigini ma stringe i denti. Con la scelta delle piazzole per statua e parafulmine si dà il via all'ultimo atto, scandito dai ritmici colpi di mazza (15 a testa: la quota non perdona). Per il primo miracolo il Salvatore non attende di essere rimontato: un geniere, caduto dal basamento, si arresta gambe all'aria e rannicchiato sulla schiena a un metro dal dirupo, rimanendo incolume: passata la strizza riprende il lavoro. Con movimenti al rallentatore si ancorano, si fissano, si saldano in successione gli ultimi pezzi.

    È un momento emozionante quando, con l'aiuto della ‘capra’, il traliccio triangolare con carrucola, il capo chiomato del Redentore si posa dolcemente sul busto e la statua prende vita: lo scultore piange in silenzio senza vergognarsene. Sceso a valle manifesterà la sua commozione: Sono stati giorni di terribile fatica: non riesco ancora a rendermi conto come gli alpini abbiano potuto trasportare in così poco tempo e lottando contro il vento tutti quei carichi. Che ragazzi! . La sera del 12 agosto gli ultimi di loro, fradici di pioggia, rientrano a Gressoney, accolti con applausi e abbracci, mentre lassù un velo di neve sta ammantando per la prima volta il Cristo delle Vette.

    Sarà invece limpido e soleggiato il 4 settembre, giorno dell'inaugurazione, nel rispetto dell'iscrizione sul basamento: ‘O Redentore Gesù, se qualcuno ti vuole, prenda come guida il sole e s'innalzi quassù’. A innalzarsi è una processione di cordate che di buon mattino si snoda dal rifugio Gnifetti, trasformato in bivacco notturno dall'andirivieni di quattrocento persone intrufolatesi in ogni dove: come Luigi Carrel, ‘il gatto del Cervino’ e come tale raggomitolato sotto il tavolo, come il col. Vismara, comandante della Scuola Alpina, e i suoi allievi sergenti del picchetto d'onore rannicchiati nel corridoio, come il cronista ufficiale dell'impresa, la vecia penna nera Fulvio Campiotti. Disagi cancellati dalla consapevolezza di partecipare ad un avvenimento eccezionale, nello scenario di uno degli anfiteatri più suggestivi dell'arco alpino. Benedice la statua mons. Carlo Chiavazza, cappellano degli alpini in Russia, che commemora l'alpino Mario Puchoz, caduto l'anno prima sul K2.

    Alto su di lui il gesto benedicente del Redentore, che pare voglia abbracciare tutte le valli alpine. Esodo da gran finale nella cornice di sicurezza creata dal capitano Picco: gli dà manforte il festeggiato prendendosi particolare cura degli immancabili incoscienti che sciamano sul ghiacciaio slegati o con la corda arrotolata nello zaino. È passato mezzo secolo. Con l'immutato spirito che l'aveva accompagnato sul Balmenhorn col Cristo delle Vette, all'apertura dell'anno cinquantenario, il generale Picco ha voluto far pervenire la documentazione fotografica di quelle giornate a Giovanni Paolo II: l'ultimo dei ricordi per un Papa dai frequenti soggiorni valdostani che, po
    co tempo prima della sua scomparsa, volgendo lo sguardo a quei monti lontani, aveva esclamato sorridendo: ‘Se avessi vent'anni di meno!’.


    È stato un ritorno al come eravamo il cinquantenario celebrato a Gressoney la Trinité sabato 3 e domenica 4 settembre (ne scriveremo sul prossimo numero de L’Alpino). Grande concorso di alpini e autorità, ma soprattutto grande commozione dei pochi protagonisti di quell’epica impresa, primo fra tutti l’allora capitano, ora generale, Costanzo Picco. Con il sapore di qualcosa che non tornerà più, ma alla quale è comunque indispensabile puntare ancora. Oggi gli alpini sono impegnati a difendere la pace per tutte le genti auspicata da quel maestoso Cristo dalla vetta del Balmenhorn.