Cento meravigliosi anni

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    Santo, “nomen omen” dicevano i latini: un nome, un destino. Sua mamma si chiamava Santa e lo diede alla luce a Campo Ligure in Valle Stura, all’interno del parco naturale del Monte Beigua, entroterra occidentale della provincia di Genova, alle propaggini del Piemonte alessandrino ed esattamente alla Cascina del Prete.

    Santo, sincero credente, ha certamente avuto protezione dalla Divina Provvidenza che lo ha salvato in guerra e da quasi tre anni di prigionia, e lo ha accompagnato nel ritorno dalla Russia, unico caso tra i compaesani coscritti. Di famiglia contadina operosa, non ebbe vita agiata, già dopo le elementari iniziò a lavorare la terra contribuendo al bilancio familiare e ad appena 14 anni, alla morte del padre, con una sorella e un fratellino più piccolo si accollò il fardello della responsabilità familiare.

    L’11 marzo 1940, a diciannove anni e mezzo, selezionato alpino alla leva, giunge al reparto Salmerie del 1º reggimento alpini, a Mondovì. Attraverso il foglio matricolare e dai suoi racconti, raccolti amorevolmente dalla nipote Daniela Puppo, sappiamo che Santo partecipa alla guerra in Francia con il battaglione Pieve di Teco: «Raggiungemmo il confine italo francese al Colle della Nubiera, la guerra durò poco e ritornammo in un paese vicino a Cuneo, e da lì, rimasti fermi un paio di mesi, partimmo in treno per Tolmezzo e poi a piedi fino al Passo di Monte Croce Carnico poiché correva voce che dovessimo attaccare la Jugoslavia, ma ci fu un contrordine, riscendemmo ad Arta Terme e poi tornammo a Mondovì ».

    Il 18 dicembre di quello stesso anno, Santo si imbarca a Bari e per Durazzo il giorno seguente: «Proseguimmo fino al Monte Tamori ove restammo per circa sei mesi fino al termine della guerra e poi tornammo in Italia; dopo la quarantena a Bari, si fece rientro a Mondovì. Nel 1941 il mio reparto venne sciolto e fui trasferito a Garessio in un Battaglione di complemento comandato da un mio compaesano, il maggiore Mignone». In quello stesso anno Santo perse la madre e divenne, a tutti gli effetti, il capo famiglia. Il 28 luglio 1942 partì per la Russia con la divisione Cuneense.

    Il 19 gennaio 1943 venne catturato dalle truppe russe, dato per disperso dalle autorità militari il 28 gennaio e poi dichiarato prigioniero il 15 settembre dello stesso anno. «Il viaggio dall’Italia con la tradotta durò 13 giorni e all’arrivo ad Ambrosiesca ci incamminammo a piedi verso il Don; una settimana dopo il comandante della divisione Cuneense, il generale Battisti, riuniti i reparti, tenne un discorso, da un palco improvvisato, dichiarandosi amareggiato poiché gli alpini avrebbero dovuto operare nella zona del Caucaso e non sul Don, e concluse dicendo “sapremo fare il nostro dovere anche sul Don, non ci fermerà neanche il Padreterno, che Dio mi perdoni!”». Ma fu la ritirata.

    Santo con i piedi congelati, ricorda di aver camminato per giorni nella neve, durante una breve sosta, si tolse le scarpe e notò la pelle che si staccava dalle parti congelate, aveva una coperta la tagliò e si fasciò i piedi per poter riprendere la terribile marcia. La colonna si fermò a Kantemirofka, una crocerossina russa lo medicò e lo inviò con soldati russi feriti e qualche altro soldato italiano verso un ricovero che fungeva da posto di medicazione: «Vi era qualche altro italiano e restammo lì circa una settimana.

    I russi la sera ci chiedevano di cantare la canzone “Mamma” molto conosciuta in Russia ed anche loro si univano al nostro canto. Venimmo poi trasportati con dei camion e durante il viaggio si diffuse a bordo una epidemia di tifo petecchiale che fece molte vittime. Anche io mi contagiai, rimasi svariati giorni senza conoscenza.

    Quando il treno si fermò, delle giovani infermiere russe ci trasportarono, anche a spalla, io pesavo solo 39 chili, in un vicino campo, in infermeria, ove ci lavarono e rasarono a zero e ci diedero una zuppa calda con qualche fettina di rapa, un barlume di luce dopo la notte più buia. Qualcuno ci disse che eravamo nel campo di prigionia di Sciumika, vicino alla Siberia». Nella locale infermeria, a causa del congelamento, a Santo vennero amputate le dita dei piedi. Seguirono successivi trasferimenti in altri campi di prigionia e di lavoro. «Il cinque ottobre del 1945, una mattina, ci riunirono nel piazzale del Campo e ci comunicarono che saremmo partiti senza indicare la destinazione.

    Dopo trentaquattro giorni di viaggio interminabile attraverso lande sconfinate arrivammo ad Innsbruck, da lì al Brennero, poi al centro di smistamento, ristoro e vestizione prigionieri a Pescantina, poi in camion a Milano, treno per Genova e poi per Campo Ligure dove giunsi nella notte del 13 novembre, atteso da alcuni parenti e anche dai miei compaesani». Dopo quasi sei anni di guerra Santo tornò a casa. Di quella esperienza nessuno potrà mai sapere fino in fondo ciò che Santo porta con sé, resta però, insieme ai suoi racconti, una lettera scritta ai suoi cari la vigilia di Natale del 1942, tra una veglia e l’altra.

    Parole che mettono a nudo, sotto la scorza apparentemente dura dell’alpino, l’animo sensibile e delicato di questo giovane: “Carissimi tutti, nel giorno più bello dell’anno, per la nascita di Gesù bambino, non essendo vicino a Voi, mi decisi di scrivervi questa misera lettera, in questo momento è quasi mezzanotte di una notte calma più che mai in questa desolata campagna, non un rintocco di qualche campana suoni a festa come ai nostri paesi, soltanto qualche colpo di cannone e qualche fischio di mitraglia, l’eco della guerra, io solo veglio mentre i miei compagni riposano, forse io questa notte ho l’idea di aspettare la nascita di Gesù Bambino.. proprio così, spero che questa notte, scendendo dal cielo, il Divin Redentore porti su questa Terra la pace desiderata. (…) Io in questa sera penso proprio a Voi che forse starete in ansia per me, invece dovete farvi coraggio specialmente in questo lieto giorno di Natale e pregate anche per me che le vostre preghiere saranno certamente esaudite… il sonno sta per prendermi perciò chiudo questa lettera per andarmi a riposare due ore… questa mia l’ho indirizzata a voi, ma l’ho scritta anche per tutti i vicini pensando che quando la riceverete ce la farete leggere. Termino perché non so dirvi altro… invio proprio di cuore i miei più cari saluti e baci a tutti… vi raccomando di bere qualche bicchiere alla mia salute, e di passare le feste in salute e contenti, e pure io in questo giorno guarderò di scacciare la malinconia che talvolta mi rende infelice… vi arriverà un po’ tardi, ma vi auguro l’ostesso di tenero affetto le buone feste Natalizie e in questi giorni auguro che spunti per voi l’aurora di una felicità senza tramonto… ricordatevi sempre di chi tanto vi pensa.. speriamo in un presto ritorno, ciau e buona notte”.

    Quando tornò nel suo amato borgo, Santo lavorò un po’ in una tessitura, poi per qualche anno ancora come contadino e un anno all’Ansaldo di Sestri. Nel 1952 si sposò e venne assunto dal Comune in qualità di netturbino: prestò servizio per un quarto di secolo e gli anziani di Campo Ligure ancora si ricordano come Santo, l’alpino reduce di Russia, ferito e decorato, tenesse lindo e splendente il suo borgo, con amore e con passione come sempre aveva fatto per tutte le cose nella vita. Lo scorso 12 settembre Santo ha tagliato il traguardo dei 100 anni; è padre di due figli (la figlia femmina si chiama Santina), ha quattro nipoti e due bisnipoti.

    È un uomo sensibile e mite, ha un buon carattere. Uomo, alpino, cristiano, padre e lavoratore, tutti con la lettera maiuscola: la sua vita per disponibilità, impegno, passione e fede è una piccola opera d’arte.

    Valter Lazzari