«Cantate con me…»

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    Abbiamo intervistato l’alpino Marco Dalla Torre, che ha di recente pubblicato per Edizioni Ares un libro sul capitano Grandi, caduto in Russia.

    Quale è la tua storia di alpino?
    Mio padre non ha potuto svolgere il servizio militare. Mio nonno, come trentino era stato arruolato, suo malgrado, come ufficiale veterinario nell’imperialregio esercito asburgico. Non avevo quindi una tradizione alle spalle, ma in casa si è sempre respirata tanta simpatia per gli alpini. Così, durante la visita di leva, chiesi di poter essere arruolato in questo Corpo. Dopo la laurea sono stato quindi destinato al battaglione Susa: agosto 1992. In dicembre il Parlamento decise l’impiego della Taurinense nell’operazione “Albatros” in Mozambico. È stata un’esperienza bellissima, di cui sono grato. Ne ho già parlato sulle pagine de L’Alpino (aprile 2013).

    Il capitano Grandi è un volto del mosaico che illustra l’epopea degli alpini. Perché proprio lui?
    Tanti anni fa lessi lo splendido romanzo storico Il cavallo rosso di Eugenio Corti, di cui poi divenni amico. Una delle pagine più commoventi racconta proprio la morte di Grandi mentre il canto dei suoi alpini si leva sulla steppa. Una pagina che si è impressa in maniera indelebile nella mia memoria. Così quando, vent’anni dopo, ho conosciuto il nipote di Grandi – l’ing. Guglielmo Maleci, che custodisce l’archivio familiare – la decisione di scrivere di lui è stata immediata. Volevo scoprire quali virtù avessero reso quest’uomo così incondizionatamente amato dai suoi soldati, la sua tempra morale. Molti ne avevano raccontato la morte, ma della sua (breve) vita non si sapeva quasi nulla. Oltre alla sua ammirevole attività di comandante e al suo riconosciuto coraggio, ciò che lo ha reso memorabile è proprio la singolare decisione di chiedere ai suoi uomini di cantare con lui e per lui, ferito a morte. Molti sono stati gli alpini esemplari che hanno lasciato la vita nella steppa; parecchi sono stati decorati. Alcuni sono diventati “leggenda”. Parlando di uno di loro ho voluto indirettamente rendere onore anche a tanti altri di cui si è smarrita la memoria.

    Possiamo dire che la sua breve vita fu legata alla montagna, agli affetti e al suo cappello. Figura attuale o anacronistica? 
    Don Gnocchi conosceva bene Grandi e racconta la sua morte in Cristo con gli alpini e in numerosi articoli. È proprio lui ad affermare che quel canto davvero compendiava gli affetti cari al cuore del capitano. La patria, gli alpini, la sua famiglia; e la sua fidanzata, l’amatissima Witty (la quale conservò il suo cuore per lui, tanto da decidere di non sposarsi). E le montagne, certo. Le aveva incontrate giungendo alla Scuola Militare Alpina di Aosta. Era un atleta, ma non aveva mai praticato l’alpinismo. In pochi mesi divenne istruttore di roccia e di scialpinismo, tanto da essere chiamato nelle “pattuglie sci veloci”. Ci rimangono molte sue foto, davvero evocative, di paesaggi d’alta montagna. “Figura attuale o anacronistica?”. Certo, i tempi sono davvero cambiati molto. Ma se per noi è quasi impossibile riconoscerci in quelle circostanze e in quel mondo, possiamo però identificarci con l’uomo, sempre simile a se stesso. Per tutta la vita ho lavorato con i giovani e mi sono chiesto se questa figura possa dir loro qualcosa. Continuiamo a essere assetati di storie. Cioè di figure umane convincenti, in cui riconoscerci o a cui aspirare. Sono attratto dalla guerra non perché mi piaccia di per sé, anzi; ma perché costringe l’uomo a levarsi le maschere, lo mette a nudo. Emerge così, purtroppo, molto egoismo e vigliaccheria, ma anche grandi atti di lealtà, nobiltà, abnegazione. Che è quello a cui tutti, magari solo segretamente, aspiriamo. Per questo cerchiamo gli eroi. Grandi credo sia stato uno di loro.

    L’esperienza di Grandi al fronte intreccia quella di molti alpini “famosi” come Nuto Revelli.
    Grandi era il comandante della 46ª compagnia del “Tirano” (5° Alpini) e Nuto Revelli era a capo di un plotone proprio di quella compagnia. Così in La guerra dei poveri parla spesso del suo capitano e sempre con grande ammirazione. Arriva a definirlo «il miglior comandante di uomini che abbia mai conosciuto». E Revelli, uomo dall’etica e dai giudizi inflessibili, non era certo uno “tenero”… Dopo i primi giorni insieme, scrive: «Con noi, che già gli eravamo amici, […] parlava di Zoagli, Portofino, Cervinia, della sua esperienza di turista, sciatore, rocciatore, come un borghese che avesse avuto anche qualche rapporto con l’ambiente militare. Era un po’ strambo, Grandi. Gli alpini però sentivano che con lui si poteva andare in guerra, ed era una vera fortuna averlo comandante». Anche don Carlo Gnocchi lo conosceva bene; e pure padre Narciso Crosara, che era il cappellano del “Tirano”. Furono proprio gli uomini della 46ª a trovare la “Madonna del Don”, tra le macerie di Belogorje. Una volta rientrato in Italia, don Crosara raccontò alla sorella di Grandi che Giuseppe, sul Don, «si era interessato per arredare una chiesetta che volevano erigere sul fronte, e che era riuscito col suo gusto e le sua passione artistica a mettere insieme tutto il necessario». Non ebbe rapporti, invece, né con Bedeschi né con Mario Rigoni Stern. Il primo si interessò a lui solo indirettamente, nella sua monumentale raccolta di testimonianze dal fronte orientale; il secondo conobbe la figura di Grandi attraverso Revelli, di cui era divenuto grande amico.

    Ebbe accanto fino all’ultimo i suoi alpini e li fece cantare. “Canta che ti passa” non è un invito banale, “Cantando il mal si disacerba” scriveva Petrarca. E per gli alpini il canto è necessario forse e soprattutto nei momenti più difficili.
    Racconta don Gnocchi: «Vedendo intorno alla slitta il cerchio silenzioso dei suoi alpini: “Che cosa sono, gridò, questi musi duri? Su ragazzi, cantate con me: Il capitano si l’è ferito, si l’è ferito: sta per morir”». Tutti i testimoni sono concordi che questa singolare richiesta Grandi la fece per rialzare l’animo dei suoi. Tante volte avevano cantato insieme, la sera, nei ricoveri a ridosso della prima linea. In quel momento, che sia lui che i suoi uomini avevano chiara coscienza sarebbe stato tra i suoi ultimi, quel canto è stato forse davvero un testamento. Un testamento condiviso: in un modo o nell’altro quelle erano le cose davvero importanti per tutti loro. Il canto ha la capacità di narrare, muovendo la forza della passione e della commozione, la storia di un popolo, le sue presenti e a volte tragiche difficoltà, le aspirazioni per cui resistere.