Canti degli alpini, sugli alpini o canti di montagna? E tra questi quali privilegiare? E come definire un coro alpino? Fatto di soli alpini o con… puntelli di supporto? E quale destino per i nostri Cori, quasi sempre sostenuti da persone con una anagrafe importante? Una specie di interrogativo sul dopo di noi, giusto per vedere come mettere al sicuro un patrimonio importante, che domanda d’essere custodito, ma anche di trovare nuova linfa e creatività. È da tempo che l’Ana indugia su questi interrogativi, per non trovarsi nella condizione di quelle aziende poco avvedute che si limitano a spartire gli utili, in questo caso il consenso popolare, senza investire guardando avanti. Ecco perché l’Ana, attraverso il Centro Studi ha deciso che era tempo di muoversi anche in questa direzione. Una iniziativa che ha trovato entusiastica sponda nella Sezione di Vicenza, capitanata dal suo vulcanico Presidente, la quale s’è resa disponibile ad ospitare un grande convegno nel prossimo mese di giugno. Tanto più che da quelle parti ci sta un Maestro inossidabile, tal Bepi De Marzi, che alla pari di altri illuminati e storici Maestri, ci metterà del suo per far partire l’iniziativa. Noi, per ora cominciamo a parlarne, in una marcia di avvicinamento. Una seminagione se volete, in attesa dei frutti.
Bepi De Marzi
Fondatore e direttore del Coro I Crodaioli di Arzignano (Vicenza)
Camminavo alla fine di un’estate verso l’Ortigara con Mario Rigoni Stern. Dal sentiero mi indicò un peccio stracarico dei suoi frutti, coni o strobili, non importa il nome. “Vedi, Bepi? sta morendo e vuole mostrare superbamente e pateticamente tutta la sua forza, la sua bellezza. Questa è la struggente poesia dell’addio”. Il mondo corale italiano non è mai stato così generoso di complessi polivocali come in questi ultimi anni: gruppi dai nomi spiritosi, inattesi o provocatori, ragazze e ragazzi bravissimi, bellissimi, che sanno leggere la musica. Si propongono incontrandosi negli “scambi” e coltivano un pubblico formato soprattutto da cantori di altri cori o da musicisti invitati. Il pubblico tradizionale che noi dei cori maschili abbiamo goduto per anni e anni non c’è quasi più. E sono mutati di molto i repertori che percorrono le lingue del mondo, soprattutto l’inglese, con un vago ritorno al latino per un linguaggio musicale, melodico e armonico, che richiama le audaci sperimentazioni dei futuristi di cento anni orsono. La Chiesa, dopo il Concilio che ha cancellato il Gregoriano, La Polifonia, ma anche il dolce cantare devozionale, naviga nel mare del Nulla dando spazio preferibilmente “alle canzonette e alle canzonacce” con testi ridicoli. Nelle messe televisive della domenica, quando comincia il canto o il suono, ecco l’immancabile voce che vagheggia su argomenti vari, coprendo, annullando l’ascolto delle musiche, belle o brutte che siano, preparate con tanta cura, con il sincero desiderio di comunicare la fede, ma anche di mostrarsi a milioni di telespettatori. E gli Alpini? Nelle Adunate c’è troppo chiasso. Da tanti anni il mio sogno è che si possa sfilare cantando, magari anche il Trentatré con quel testo raffazzonato. Invece imperversano i tamburi a segnare il passo dei generosi. Il nostro cantare è nato a Trento negli Anni Venti, da Pigarelli con i Pedrotti che hanno fatto tesoro delle indicazioni armoniche del musicista Vittorio Gui ispirato dallo scrittore e poeta Piero Jahier: stavano insieme, ufficialetti di complemento a guerra finita, proprio a Trento. Sono passati cento anni! Qualcuno vorrebbe proporre i “Canti di trincea”, di quell’Inutile Massacro: canti che sono invenzioni a posteriori, rifacimenti, adattamenti, parodie su canti popolari di lavoro o regionali. Ma come si può pensare che nel terrore della trincea si cantasse? Il nostro raccontare con voci maschili deve ritrovare il vigore della credibilità con la poesia, con presentazioni commosse e felici, coinvolgenti. Anche se intorno c’è il bosco di pecci stracarichi di frutti.
Mauro Pedrotti
Direttore del Coro SAT di Trento
Oggi non ci sono più le condizioni che avevano favorito, particolarmente nel secondo dopoguerra, la nascita di tanti cori amatoriali: il “coro” rappresentava la passione, la voglia di cantare, di usare il canto per esaltare la bellezza della musica, per dimenticare un periodo tragico. I giovani hanno altri interessi e sono sballottati tra mille attività, volenti o nolenti. Telefonino e facebook sono ormai al centro del loro universo. I cori subiscono questa realtà. È vero che formazioni le corali sono ancora numerose e vitali; sono però sempre meno i giovani coristi che vi fanno parte. L’effetto è un “invecchiamento” generale, con poche eccezioni. E allora fioriscono le fusioni tra cori, le trasformazioni in coro misto. Ma non è sufficiente. È una situazione irreversibile? No, non ancora. Ma ognuno deve rimboccarsi le maniche e agire. Per quanto ci riguarda, con la creazione, dieci anni fa, di una “scuola Sat”; con la collaborazione offerta ai tanti cori universitari – specialmente milanesi – che sono sorti e che stanno sorgendo; con l’istituzione, assieme ai Conservatori di Trento e di Bolzano, di un concorso per l’armonizzazione di canti di tradizione orale riservato agli studenti dei conservatori, abbiamo inteso dare un piccolo contributo per invertire la tendenza negativa. Con qualche risultato incoraggiante. Ma servono soprattutto interventi nelle scuole, maggiore attenzione da parte dei Conservatori e delle istituzioni in generale. Per questo dobbiamo però riservare una maggiore attenzione alla qualità. Se la passione si attenua e il “coro” resta solo un “passatempo”, una scusa per uscire di casa, se l’impegno si ammorbidisce e se si cantano robe inascoltabili, allora la sorte dei cori è veramente segnata. Anche se la speranza è l’ultima a morire…
Paolo Bon
Etnomusicologo, già direttore di coro
Premetto che la letteratura corale esistente, ispirata all’epopea degli Alpini e alle storie della montagna, a cominciare da quella del Coro della SAT, conserva sempre un elevato valore espressivo: le cose che sono state belle una volta sono e saranno sempre belle. Tuttavia oggi noi assistiamo effettivamente ad un certo calo di interesse della coralità per queste tematiche, in particolare per quelle ispirate alla Grande Guerra, sentita sempre più lontana dagli ideali della società d’oggi, e non va affatto trascurata una controtendenza di contenuto antimilitarista, che già si è manifestata nel corso delle commemorazioni del Centenario. Per i canti detti “della montagna” il discorso è parzialmente diverso, poiché questi non si differenziano affatto dagli esiti che possiamo raccogliere in pianura o al mare: si tratta degli ultimi rivestimenti letterario-musicali di esiti che hanno radici nell’arcaico, svincolati da vicende più o meno recenti che ne condizionano i contenuti e perciò sentiti come più “universali”. Per concludere, non posso che esprimere l’auspicio che la coralità seguiti a coltivare con amore tutte queste tematiche, e che i musicisti compositori seguitino a dedicare alla coralità le loro impegnate elaborazioni.
Massimo Corso
Coro Monte Cauriol di Genova
Il Coro Monte Cauriol è formato da persone che credono che la musica sia un’espressione dell’umanità, dell’uomo, che da sempre riversa i suoi pensieri, i suoi sentimenti, la sua storia e la sua vita vissuta dentro quello che scrive, che canta, che suona o che dipinge. La fondamentale caratteristica del canto popolare è che essendo stato levigato da secoli di tradizione orale, in qualche modo perde tutto ciò che è superfluo, artificioso, elimina le asperità e ne esce qualche cosa di puro, di estremamente essenziale, che lo senti una volta e ti rimane in testa. Quindi noi privilegiamo assolutamente canti non d’autore, salvo rarissime eccezioni. Siamo andati in giro, anche in Trentino, a farci cantare nelle osterie i canti, lo stesso a Trieste e così via nelle regioni dell’arco alpino. Poi abbiamo vestito questi distillati di vita (allegri, tristi, drammatici, comici, di protesta, di stanchezza, d’amore, di morte) con nostre armonizzazioni nell’intento di restituirle nel modo più naturale possibile, perché ci vuole misura e rispetto per questi canti. Quindi esprimerli, interpretarli, sì. Renderli cerebrali, no. Si sta in equilibrio su un filo sottile. In una armonizzazione un accordo ardito, un passaggio inatteso possono starci: due sono probabilmente troppi. Dipende anche dal brano naturalmente. Poi li abbiamo proposti al pubblico che ha sempre dimostrato di apprezzarli molto. Forse in questo modo abbiamo contribuito a salvare qualcosa che si sarebbe perso, un pezzo di un’Italia che non c’è più ma che quei canti ancora raccontano. Il futuro? Non cercheremo effetti speciali. Io mi sono dedicato a lungo alla musica antica, che è basata sui contrasti e sulle differenze, ma anche sulla “misura” di queste differenze. La voce umana e gli strumenti antichi hanno alcune cose in comune: non possono avere un volume di suono grande a piacere, né suonare senza respiri. La musica antica è rinata a nuova freschezza quando si sono capite queste cose, si sono riscoperti gli strumenti originali, e lo stesso può essere – speriamo – per i cori alpini. Ma sarà anche necessario che questo genere popolare venga insegnato nelle scuole, nelle forme più genuine ed in maniera più concreta di quanto non sia stato fatto fino ad oggi, soprattutto in quelle aree geografiche dove è nato. Senza questo fondamentale contatto con le giovani generazioni il suo futuro potrebbe risultare problematico.
Gianni Malatesta
Fondatore e Direttore Coro Tre Pini di Padova
Impossibile per me dare una valutazione relativamente al futuro dei cori maschili di ispirazione popolare. Posso solamente fornire i seguenti dati relativi alla relazione semestrale della Siae in rapporto alla mia composizione (armonizzazione ndr) di canti attinenti alla storia degli Alpini. Dunque i canti elencati sono 21 e questi i titoli: 1) Bandiera Nera; 2) Bombardano Cortina; 3) Di là del Piave; 4) Dove sei stato mio bell’Alpino; 5) Gli Eroi di Monte Pasubio (composizione originale di Gianni Malatesta); 6) Monte Canino; 7) Monte Nero; 8) Quel mazzolin di fiori; 9) Sul Cappello; 10) La Tradotta; 11) Va l’alpin; 12) I baldi alpin van via; 13) Bersaglier ha cento penne; 14) Bombardano Cortina; 15) Di là del Piave; 16) Mamma mia vienimi incontro; 17) Stelutis Alpinis; 18) Ta Pum; 19) Testamento del Capitano; 20) Marcia Alpina delle Tofane; 21) Su in montagna. Per portare avanti i cori maschili di ispirazione popolare è necessario coinvolgere quanto più possibile i giovani, incentivandoli ad entrare in questi cori e sostituendo gli stanchi coristi maturi.
Massimo Marchesotti
Direttore Coro Ana Milano
Sono ormai molti anni che alcuni cori, quelli almeno più sensibili, più attenti, percepiscono una realtà corale in rapida mutazione. In questo contesto per alcuni maestri, l’esigenza di cercare nuovi filoni dentro la musica tradizionale oppure al di fuori di essa, si è fatta prioritaria rispetto al metodo attuale purtroppo ancora dominante. Per il Coro Ana di Milano costituitosi nel lontano 1949 nell’ambito dell’Ana, il repertorio, allora, fu una scelta obbligata. I canti della SAT furono il riferimento unico al quale ci si atteneva. Affidandoci alle misteriose risorse del nostro mezzo espressivo ed anche ad un generico “star bene assieme”, venivamo in qualche modo ingannati limitando la nostra crescita corale. Le scelte erano quindi di due tipi; accontentarsi delle vecchie formule e morire di stanchezza musicale oppure rinnovarsi. Accettando questa seconda ipotesi dovevamo abbattere quelle colonne sulle quali si appoggiavano le nostre certezze. Sappiamo bene che il pubblico, quasi sempre d’età avanzata, desidera ascoltare le solite cose anche perché, il mondo corale, fatte salve le dovute eccezioni, non ha saputo, anche attraverso i soliti noiosi rituali, proporre un granché al mondo dei giovani. Molti complessi corali non hanno cercato di mettersi in discussione, non hanno saputo scrollarsi di dosso il pressapochismo, la pigrizia, la retorica e la paura del nuovo, mentre un cammino artistico si fa grande quando riesce a non farsi frenare dalla nostalgia o da consensi che, raccolti un po’ dovunque, frenano e limitano la crescita corale. Oggi, troppi cori, salvo quelli d’antica data, cantano tutti le stesse cose. Mi pare, tuttavia, che nuovi giovani armonizzatori assai preparati si mettano a disposizioni con nuove composizioni. Il vero problema rimane quello che molti complessi sono composti da una fascia d’età molto avanzata assai poco disponibile ad accettare le novità, quindi si butta nello shaker quello che vuole il coro e via. Cantare non può essere solo un momento di svago dopolavoristico. Auspico che la coralità possa raggiungere livelli musicali qualificati riservando le loro passioni verso i filoni della musica tradizionale oppure al di fuori di essa ma soprattutto al di fuori degli stereotipi abituali.