Aspettando la primavera

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    Non ci vuole molto a pensare che il 2021 sarà migliore dell’anno appena concluso. Se non ci consentono di dirlo i dati oggettivi, ce lo lascia coltivare nel cuore la speranza. Oltretutto quest’anno l’Italia sarà concentrata a celebrare il settimo centenario della morte di Dante. Una scadenza culturale straordinaria, che ha anche il valore di un augurio.

    Sappiamo che quando il grande poeta scrisse la Comedia (e non Divina, come fu aggiunto al titolo originale nel 1500, per indicare l’immensità dell’opera), aveva in mente tutte le vicende umane con le loro sofferenze, miserie ed anche grandezze. Scriveva cioè una grande metafora di quanto accade nella vita, dove tante situazioni ci ricordano l’inferno, ma senza perdere mai la speranza, quella della gioia che fiorisce dopo le fatiche dei nostri purgatori. Guai lasciare ogni speranza, se mai ci sentissimo in qualche momento di arrancare. Del resto basterebbe guardare la storia.

    Il boom economico degli anni Sessanta fu il “paradiso” dopo l’inferno della Seconda guerra mondiale, raggiunto con l’impegno e la creatività di chi aveva passato gli anni precedenti asciugando lacrime. New York divenne ciò che è ancora oggi dopo la crisi del ’29, quando menti illuminate e progettisti in fuga dai miasmi delle leggi razziali portarono là tanti disperati. Sono sempre le ceneri che nascondono il fuoco capace di sprigionare forza e calore. Ma questo non occorre dirlo agli alpini. Ciò che hanno fatto vedere nei mesi passati si commenta da solo. Basterebbe pensare all’Ospedale di Bergamo allestito in tempi e generosità, che hanno il profumo del miracolo. Il mese scorso l’allestimento è stato premiato tra le migliori strutture sanitarie dell’anno. Peccato che qualche giornalista locale non abbia fatto cenno ai meriti dell’Ana, avvalorando quel detto secondo il quale alcuni seminano e altri raccolgono. Penso poi alla Protezione Civile impegnata a 360 gradi, ma senza scordare l’impegno nascosto e silenzioso dei mille altri Gruppi e singoli alpini, che hanno mostrato all’Italia e al mondo di quale pasta sono fatti.

    Il 7 dicembre, il prestigioso New York Times apriva in prima con la foto a quattro colonne di un alpino di Nembro. Sulla bara, con il tricolore, il cappello e la foto. Soprattutto si raccontava il rammarico di non averlo seppellito vestendolo da alpino come lui avrebbe desiderato. Ma gli alpini il vestito ce l’hanno tatuato nella pelle e nell’animo. Ha fatto il giro del mondo, e non si tratta di esagerazione retorica, la storia di Stefano Bozzini, 81 anni di Piacenza. La sua Carla, l’amore di una vita, era in ospedale e lui non aveva modo di andare a stringerle la mano e portarle un bacio. Ma nessuno poteva impedirgli di dirle il suo amore, come solo i giganti dell’animo sanno fare.

    E così ha preso la fisarmonica e si è messo in testa il cappello alpino e si è seduto sotto le finestre dove lei si stava spegnendo. Non sapremo mai se il cuore pulsava sotto la penna o tra le note che uscivano veloci dallo strumento musicale. Ma fu in quella magia, che nessuna mente da sola può progettare, che capimmo di quale pasta sono fatti certi uomini. Fiorisce in questa trama di vicende sociali e umane la vocazione ad essere e restare alpini.

    Tra poco, sia pure con tutte le difficoltà e le incertezze, saremo chiamati a ritrovarci nei nostri Gruppi, per rinnovare la nostra adesione anche formale all’Associazione. Voglio sperare che nessuno, ferito nell’entusiasmo, sia tentato di rallentare il passo. Questo deve essere il momento in cui progettiamo insieme la rinascita, in cui tutti ci sentiamo chiamati a portare un contributo di generosità e di energie perché la luce non si smorzi nei toni. È quasi una chiamata alle armi, per portare dormienti, amici, aggregati a formare quell’esercito di mani e di cuori, che da sempre hanno saputo trasformare il Paese.

    È vero che siamo in un tempo che sa di “purgatorio”, spesso tanto indigesto agli indolenti e ai brontoloni. Ma questo è soprattutto tempo di speranza, sapendo che davanti ci aspetta solo la primavera.

    Bruno Fasani