Arrivederci veci…

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    Avevamo da poco festeggiato i tuoi 100 anni, insieme. E ora ci hai lasciato soli, perché è così che ci sentiamo. Ora più nessuno potrà testimoniare l’odissea dell’affondamento del Galilea, tu eri l’ultimo superstite, ultimo testimone di una leggenda che è stato il battaglione Gemona nella Campagna di Grecia, battaglione che faceva parte della divisione miracolo, la Julia, la divisione che Giulio Bedeschi in Centomila Gavette di ghiaccio definisce “sangue di Dio”. Se ne va l’ultimo di un battaglione distrutto e ricostituito due volte in territorio albanese e che poi la sorte volle, in quella tragica notte del 28 marzo 1942, finisse in fondo al mare durante l’attraversata per tornare a baita. Onorino noi tutti ti dobbiamo dire grazie, non hai mai voluto essere trattato da eroe, non faceva parte del tuo modo di essere, non ti piaceva il termine “leggenda vivente” non calzava con la tua personalità. Eppure per noi sei stato e sarai sempre un esempio. Ricordo che alle commemorazioni dell’affondamento del Galilea a Chions, malgrado talvolta fossi influenzato o non proprio in forma, e avessi già superato da un po’ i 90 anni, non volevi mancare perché il ricordo di chi non ce l’aveva fatta per te era più importante e questo dovrebbe essere un esempio anche per noi che spesso manchiamo alle cerimonie in memoria dei nostri Caduti. A noi piace credere che ora, nel Paradiso di Cantore, il colonello D’Alessandro possa finalmente fare quell’adunata di battaglione che avrebbe dovuto tenere a Bari la mattina del 29 marzo ma che purtroppo i fatti bellici impedirono. Onorino raggiungi i tuoi alpini del Gemona e racconta loro che qui ci sono ancora delle brave persone con la penna nera che pensano e ricordano il loro sacrificio e che aiutano le persone in difficoltà proprio in memoria loro. Ti saluto con l’ultimo ricordo che ho di te, il tuo compleanno, quando ci lamentavamo un po’ per non averti potuto festeggiare degnamente, e tu, che a queste cose davi poca importanza, ti sei commosso ancora una volta ricordando i tuoi fratelli che in quella lunga notte di marzo, morivano buttandosi in acqua… Arrivederci Onorino.

    Il tuo Presidente Ilario Merlin

     

    Guardavano lontano i suoi occhi azzurri, dalla cascina del “Piantù”, sul Dosso di Lodrino in Val Trompia, quando i nuvoloni neri dei temporali lasciavano il posto a tramonti che coloravano i monti di arancione. Vigilio Bettinsoli, “Gilio dei Gianì” (dal nome del padre, Giovanni), ha vissuto là, quasi in eremitaggio per oltre 40 anni, gli ultimi della sua lunga vita. Classe 1922, si è spento alla soglia dei 99 anni: era l’ultimo superstite in Alta Valle Trompia della battaglia di Nikolajewka. Una figura amatissima da tutti gli alpini, sempre presente alle cerimonie nazionali, con in testa il suo bellissimo cappello originale: l’ultima volta nel 2020, la coperta di lana sulle gambe, seduto e fiero davanti alla Scuola Nikolajewka di Brescia. Immagine immortalata dai fotografi e diventata anche copertina del nostro mensile. Gilio aveva compiuto 20 anni in marcia verso il Don, 255ª compagnia del Valchiese, 6º reggimento alpini della Tridentina. Del fronte era solito ricordare “sapunà, sapunà, sapunà…”, ovvero zappare, zappare, zappare, riferendosi all’apprestamento di trincee e camminamenti. Poi l’assalto a Schelijakino con il cap. Luciano Zani (Medaglia d’Oro concessa in vita), che riabbraccerà nel 1986; e poi Nikolajewka. Quindi la ritirata, con le gambe semi paralizzate, aggrappato alla cintura dell’amico Tone de la Nano (Antonio Bettinsoli, classe 1917, “andato avanti” nel 2000, di Invico). Quando era partito pesava 70 kg, quando arriva in Italia 47. Ma non è finita: dopo l’8 settembre la prigionia nel campo di lavoro di Amburgo. Lo liberano gli americani a maggio del 1945: tornerà a Lodrino il 20 agosto. Nel 1952 sposa Giuseppina Attilia, pure lei Bettinsoli (ramo Biondéli) con cui ha quattro figli Irene, Angiolina, Giuliana e Gianni. Purtroppo Giuseppina muore vent’anni dopo e lui manterrà i quattro figli, lavorando prima come contadino in Svizzera e poi per quasi trent’anni come operaio. Con la pensione, cresciuti i figli, torna alla vita contadina, ritirandosi al “Piantù” con la Spèrta, una bruna alpina col cui latte prepara una formaggella ogni due giorni. Chi va a trovarlo trova sempre la porta aperta, un sorriso e un bicchiere di rosso. Ma lui preferisce vivere da solo, davanti al cielo, coi suoi animali. Purtroppo la vita gli riserverà un altro grande dolore, la perdita del figlio, anche lui già pensionato. Il suo paese gli ha detto addio in un freddo giorno di pioggia a inizio febbraio, presenti a decine i gagliardetti e il vessillo della Sezione, con il Presidente Gian Battista Turrini, che al termine del rito lo ha salutato a nome di tutti gli alpini bresciani. Le voci del coro Tridentina lo hanno accompagnato nel Paradiso di Cantore, verso cui hanno sempre guardato i suoi occhi azzurri.

    Massimo Cortesi