Ancora sangue

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    Ancora sangue, ancora morti in terra afgana. Non abbiamo strumenti adeguati per capire perché in quelle regioni affascinanti e desolate, dove si sono fermate le falangi di Alessandro Magno e i carri armati dell’Unione Sovietica, un conflitto senza inizio e senza fine continui a seminare distruzione e morte. Da troppo tempo, in Afghanistan, la vita di tutti è appesa al filo delle casualità determinate dal fanatismo, dalla povertà e dalla scarsa lungimiranza di chi ritiene di poter risolvere i problemi del mondo con la forza delle armi. Alle cose si può dare un primo impulso, poi ci trascinano ha scritto Napoleone. Mai come negli ultimi conflitti i risultati sono stati così lontani dagli obiettivi ipotizzati. C’è da riflettere.

    Confesso che quando vedo partire i nostri ragazzi per le operazioni oltremare, bene armati, bene addestrati, pieni di voglia di fare qualcosa d’importante per arginare la pericolosità del terrorismo, desiderosi di dare un aiuto a popolazioni disastrate da un destino perverso, provo un solo e dominante sentimento: che tornino tutti in Patria come sono partiti, che riabbraccino i loro familiari, che riprendano il normale ruolo di forza militare a disposizione della comunità.

    Questa missione afgana, complicata, pericolosa non entusiasma e non si capisce, anche se va indubbiamente riconosciuta la necessità di una presenza militare italiana a contributo dello sforzo internazionale mirato a colpire, sul terreno che le è più congeniale, la mala pianta del fanatismo. Solo che la forza delle armi ha storicamente manifestato tutti i suoi limiti quando si confronta con un avversario che si muove su piani diversi da quelli dei manuali dell’arte militare e persegue finalità estranee alla nostra cultura.

    Nessuno ha la ricetta di come uscire da simili situazioni, ma un’idea di quello che non si deve fare forse sì. Un risultato di grande importanza, e bisogna dar loro merito, i nostri soldati ed in particolare gli alpini lo hanno ottenuto, anche se solo tardivamente sono stati compresi da altri componenti delle forze impegnate in Afghanistan: farsi accettare dalla popolazione non come occupanti, ma interlocutori di riferimento per la ricerca di una soluzione non conflittuale di divergenze che affondano le radici in una storia, cultura e civiltà millenarie. Più intelligence’, o semplicemente intelligenza, meno bombe. Forse proprio questa linea di condotta ha esposto maggiormente i nostri reparti alle insidie di un avversario che ritiene pericolosa qualsiasi strategia che rischi di minare quello che ritiene un diritto esclusivo di dominio su uomini, donne e soprattutto sulle loro coscienze.

    Avere diffuso il seme della convivenza civile in un terreno da secoli dominato dalla sopraffazione e dalla violenza, i soldati italiani hanno raggiunto un obiettivo straordinario e sicuramente tale da rendere meno amaro il calice del sacrificio di Francesco, Gianmarco, Sebastiano, Marco e di quelli che li hanno preceduti. La nostra vicinanza agli alpini della Julia e della Taurinense, come a tutti gli altri militari di Corpi impegnati all’estero, vuole essere un segno di condivisione di sentimenti affettuosi per un compito rischioso portato avanti con forte senso del dovere ed encomiabile professionalità.

    Ne siamo orgogliosi. Non è nostra preferenza, come ci auguriamo non lo sia per nessuno, manifestare l’attaccamento alle Forze Armate in occasione dei funerali di Stato. La vicinanza che continuiamo a testimoniare è concreta, quotidiana; un supporto fraterno a garanzia che il loro impegno è considerato degno di apprezzamento e di ammirazione.

    Vittorio Brunello

    Pubblicato sul numero di novembre 2010 de L’Alpino.