Alpino al… fronte

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    Il Coro dei congedati della brigata Julia ha appena finito di raccontare nel canto l’epopea della Grande Guerra, quando mi avvicina un metro e novanta di uomo: «Sono Mario Picech. Sono di Gorizia. Di Cormons, per l’esattezza». Non sono necessari i convenevoli per creare cordialità, perché un sorriso a trentadue denti sembra il biglietto di ingresso a qualche festa di nozze o rimpatriata tra amici. Quindi quattro battute di circostanza, giusto per dire qualcosa senza dire niente, ma sufficienti per realizzare che l’alpino che hai davanti è un puledro di razza. 

     

    L’appuntamento per chiacchierare un po’ è solo rinviato di qualche giorno, con l’obiettivo di far conoscere a tutti gli alpini la storia di questa voce da basso dalla gamba lunga. Una storia che comincia a Cormons, appunto, nel ’62. Una vita normale, fino all’università almeno, con dentro un diploma da geometra che gli spalanca le porte alla facoltà di Ingegneria. Peccato che non gli interessi granché di metri a rullo, picchetti, laser… Più che le cose tecniche sente il fascino delle persone, anche se non ripudia una virgola della sua cultura scientifica.

    «La geometria è lo studio degli spazi e questo ti dà il senso del luogo come opportunità di incontro e di accoglienza ». Avvisati i capigruppo che mettono in piedi baite e locali vari: gli spazi non sono solo dei contenitori e la loro qualità incide sulla vita delle persone che li frequentano già dal modo in cui vengono predisposti. Sia come sia, nel 1983 arriva per Mario il tempo del grigioverde. Brigata alpina Julia, di stanza a Udine, poco lontano da casa. La grinta e l’impulsività del ventenne sono a pieno regime e dieci giorni di Cpr, da scontare a fine naja, sono poca cosa per quel cavallo, che ama correre, almeno nell’animo, negli spazi grandi delle praterie. Poi l’incontro con il Coro della Brigata. Ad apprezzarne la voce è il Maestro Ilario Lavrencic, che lo arruola da basso a tempo pieno.

    Per Mario quello diventa il tempo della conoscenza del canto alpino. Un’esperienza che egli considera altamente pedagogica per la sua vita. «Solo il canto alpino ti porta dentro ad un mondo vero, umano, fatto di affetti, sacrificio, sofferenza, interrogativi, offerta del dono della vita… È il mondo della verità della nostra dimensione umana». Si raccoglie un istante. Poi col pensiero va alla canzone Il Ponte di Perati… «Ogni volta che la ascolto mi commuovo ». Ma quella stagione della vita di Mario lo segnerà anche per un’altra ragione, quella che viene dall’aver imparato a vivere con gli alpini: «Ti accorgi di partecipare ad una storia che è più grande di te, con tutta la sua portata di ricchezza, ricadute umane, morali, culturali. A vent’anni non ne sei consapevole, ma a cinquant’anni ne acquisti coscienza». È in quel caleidoscopio di stimoli umani che il giovane alpino avverte il bisogno di ulteriorità.

    La risposta gli verrà da un incontro con i gesuiti di Gorizia. «Mi fece impressione la loro radicalità. Mi dissi: questi prendono sul serio la fede». E fu da quel momento che anche per Mario la cosa diventò un fatto estremamente serio. Ciò che accadrà dopo è il resoconto di un pellegrinaggio sulle orme del Vangelo. Noviziato a Genova, corso filosofico a Padova, ancora a Genova, teologia a Napoli, Licenza in Morale alla Gregoriana di Roma, poi da giovane prete, prima Padova, poi Messico, quindi Torino, per tornare, nel 2010, ancora in Messico. Ed è proprio il Messico a consegnarci la cifra di questo uomo. Il primo assaggio di quella che sarebbe diventata la sua missione lo aveva sperimentato già dalla sua prima esperienza messicana. Un mese e mezzo nella colonia penale di Islas Marias Madre. Diecimila detenuti sperduti su un’isola nel Pacifico. Settanta chilometri dalla terra ferma, tra pericolosi criminali, ai quali il prete alpino cerca di non far scordare d’essere uomini. Sono prevalentemente assassini, commercianti di armi, membri spietati del cartello della droga.

    Quando ci arrivò per la prima volta erano diecimila detenuti. Poi una rivolta interna ridimensionò il numero, portandolo a tremila carcerati, in mezzo ai quali Padre Mario opera dal 2010. Nove mesi e mezzo all’anno, lontano da tutti, senza internet, senza la strumentazione che ti faccia sentire meno solo al mondo. Ci vuole una notte di navigazione per percorrere i 70 km che separano quei disperati dal resto del mondo. Poi, giunti sul posto è come se si abbassasse la saracinesca dell’umanità. Almeno così la pensiamo noi. Ma non così la pensa l’alpino Mario Picech, il quale ogni giorno va a bussare alla coscienza di queste persone, per regalare un po’ di speranza. E sono i momenti, così ci racconta, in cui l’esperienza della misericordia diventa palpabile. Lo avverti quando vedi risvegliarsi il desiderio del bene, mai morto nel cuore di nessuno. Lo avverti quando senti che l’incontro fa fiorire sentimenti di fraternità, che ha bisogno di volare, magari senza ali.

    È allora che qualche prigioniero ti chiede di poter tornare ad essere utile e buono con gli altri: «Padre, mi dica il nome di qualcuno per cui pregare, per cui fare qualcosa di buono». Lì in quella landa sperduta, sommersa dal fragore degli oceani, Caino si risveglia dal suo letto di morte e torna a guardare in alto con gli occhi di un Abele dal cuore grande. Padre Mario torna due mesi e mezzo all’anno in Italia, tra i suoi cari e tra i suoi preti. E ti chiedi come possa un uomo sostenere il peso di una vocazione come la sua. Poi basta ascoltarlo.

    O forse basta guardarlo, per capire che non si diventa più umani perché immersi in quella che noi chiamiamo civiltà. Si stupisce dell’abuso del cellulare che facciamo qui da noi. «Ci si sente controllati e senza relazioni vere», ci dice con rammarico. A lui la fatica del ministero gli ha insegnato ad apprezzare le grandi cose che fioriscono nel silenzio del cuore e la gioia dello spendersi senza misura. Esattamente nello stile di un alpino autentico e di un cristiano vero.

    Bruno Fasani

    Alpino al… fronte

    Il Coro dei congedati della brigataJulia ha appena finito di raccontarenel canto l’epopea della GrandeGuerra, quando mi avvicina un metroe novanta di uomo: «Sono Mario Picech.Sono di Gorizia. Di Cormons, perl’esattezza». Non sono necessari i convenevoliper creare cordialità, perchéun sorriso a trentadue denti sembra ilbiglietto di ingresso a qualche festa dinozze o rimpatriata tra amici. Quindiquattro battute di circostanza, giustoper dire qualcosa senza dire niente, masufficienti per realizzare che l’alpinoche hai davanti è un puledro di razza.L’appuntamento per chiacchierare unpo’ è solo rinviato di qualche giorno,con l’obiettivo di far conoscere a tuttigli alpini la storia di questa voce da bassodalla gamba lunga.Una storia che comincia a Cormons,appunto, nel ’62. Una vita normale,fino all’università almeno, con dentroun diploma da geometra che gli spalancale porte alla facoltà di Ingegneria.Peccato che non gli interessi granchédi metri a rullo, picchetti, laser… Piùche le cose tecniche sente il fascinodelle persone, anche se non ripudiauna virgola della sua cultura scientifica.«La geometria è lo studio degli spazie questo ti dà il senso del luogo comeopportunità di incontro e di accoglienza». Avvisati i capigruppo che mettonoin piedi baite e locali vari: gli spazinon sono solo dei contenitori e la loroqualità incide sulla vita delle personeche li frequentano già dal modo in cuivengono predisposti.Sia come sia, nel 1983 arriva perMario il tempo del grigioverde.Brigata alpina Julia, di stanzaa Udine, poco lontano dacasa. La grinta e l’impulsivitàdel ventenne sono apieno regime e dieci giorni di Cpr, dascontare a fine naja, sono poca cosa perquel cavallo, che ama correre, almenonell’animo, negli spazi grandi delle praterie.Poi l’incontro con il Coro dellaBrigata. Ad apprezzarne la voce è ilMaestro Ilario Lavrencic, che lo arruolada basso a tempo pieno.Per Mario quello diventa il tempo dellaconoscenza del canto alpino. Un’esperienzache egli considera altamente pedagogicaper la sua vita. «Solo il cantoalpino ti porta dentro ad un mondovero, umano, fatto di affetti, sacrificio,sofferenza, interrogativi, offerta deldono della vita… È il mondo della veritàdella nostra dimensione umana».Si raccoglie un istante. Poi col pensierova alla canzone Il Ponte di Perati…«Ogni volta che la ascolto mi commuovo».Ma quella stagione della vita di Mariolo segnerà anche per un’altra ragione,quella che viene dall’aver imparato avivere con gli alpini: «Ti accorgi di parteciparead una storia che è più grandedi te, con tutta la sua portata di ricchezza,ricadute umane, morali, culturali. Avent’anni non ne sei consapevole, maa cinquant’anni ne acquisti coscienza».È in quel caleidoscopio di stimoli umaniche il giovane alpino avverte il bisognodi ulteriorità.La risposta gli verrà da un incontro coni gesuiti di Gorizia. «Mi fece impressionela loro radicalità. Mi dissi: questiprendono sul serio la fede». E fu da quelmomento che anche per Mario la cosadiventò un fatto estremamente serio.Ciò che accadrà dopo è il resoconto diun pellegrinaggio sulle orme del Vangelo.Noviziato a Genova, corso filosoficoa Padova, ancora a Genova, teologiaa Napoli, Licenza in Morale alla Gregorianadi Roma, poi da giovane prete,prima Padova, poi Messico, quindiTorino, per tornare, nel 2010, ancorain Messico.Ed è proprio il Messico a consegnarci lacifra di questo uomo. Il primo assaggiodi quella che sarebbe diventata la suamissione lo aveva sperimentato già dallasua prima esperienza messicana. Unmese e mezzo nella colonia penale diIslas Marias Madre. Diecimila detenutisperduti su un’isola nel Pacifico. Settantachilometri dalla terra ferma, trapericolosi criminali, ai quali il prete alpinocerca di non far scordare d’essereuomini. Sono prevalentemente assassini,commercianti di armi, membri spietatidel cartello della droga. Quando ciarrivò per la prima volta erano diecimiladetenuti. Poi una rivolta internaridimensionò il numero, portandolo atremila carcerati, in mezzo ai quali PadreMario opera dal 2010. Nove mesi emezzo all’anno, lontano da tutti, senzainternet, senza la strumentazione cheti faccia sentire meno solo al mondo.Ci vuole una notte di navigazione perpercorrere i 70 km che separano queidisperati dal resto del mondo. Poi,giunti sul posto è come se si abbassassela saracinesca dell’umanità. Almenocosì la pensiamo noi. Ma non così lapensa l’alpino Mario Picech, il qualeogni giorno va a bussare alla coscienzadi queste persone, per regalare un po’di speranza. E sono i momenti, cosìci racconta, in cuil’esperienza dellamisericordia diventapalpabile.Lo avverti quandovedi risvegliarsi ildesiderio del bene,mai morto nel cuoredi nessuno. Loavverti quando sentiche l’incontro fa fiorire sentimenti difraternità, che ha bisogno di volare,magari senza ali. È allora che qualcheprigioniero ti chiede di poter tornaread essere utile e buono con gli altri:«Padre, mi dica il nome di qualcunoper cui pregare, per cui fare qualcosadi buono». Lì in quella landa sperduta,sommersa dal fragore degli oceani,Caino si risveglia dal suo letto di mortee torna a guardare in alto con gli occhidi un Abele dal cuore grande.Padre Mario torna due mesi e mezzoall’anno in Italia, tra i suoi cari e trai suoi preti. E ti chiedi come possa unuomo sostenere il peso di una vocazionecome la sua. Poi basta ascoltarlo.O forse basta guardarlo, per capireche non si diventa più umani perchéimmersi in quella che noi chiamiamociviltà. Si stupisce dell’abuso del cellulareche facciamo qui da noi. «Cisi sente controllati e senza relazionivere», ci dice con rammarico. A lui lafatica del ministero gli ha insegnato adapprezzare le grandi cose che fioriscononel silenzio del cuore e la gioia dellospendersi senza misura. Esattamentenello stile di un alpino autentico e diun cristiano vero.
    Bruno Fasani