Alpini in missione

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    Alpini-montagna. Equazione quasi naturale. Ma nella storia le Truppe alpine sono state impiegate in molti fronti che di montuoso avevano poco, facendo tuttavia valere più che la specializzazione lo spirito di Corpo e la disciplina. E proprio alle “Operazioni d’oltremare” degli alpini è stata dedicata la conferenza di Vicenza, quarta delle sei organizzate nel 150º di fondazione del Corpo e ospitata nel Polo universitario delle Professioni sanitarie. Salutati dal comandante delle Truppe Alpine, gen. C.A. Ignazio Gamba (il quale ha ricordato il frequente impegno degli alpini, «che hanno inventato la resilienza», fuori dai confini) e dal nostro Presidente nazionale, Sebastiano Favero (che ha sottolineato il messaggio di solidarietà e di pace da sempre portato avanti dall’Ana «chiamata ieri come oggi ad essere pronta al servizio della Patria»), hanno sviluppato il tema il prof. Nicola Labanca, Presidente del Centro interuniversitario di studi storico militari, il major general Gordon B. Davis Jr. dello Us Army e generale anche degli alpini ed il gen. B. Nicola Piasente, comandante della Taurinense.

    A sollecitarli con domande connesse alle rispettive specializzazioni Mauro Azzi, del Centro Studi Ana, curatore della rassegna. Labanca ha trascurato le due Guerre mondiali (“argomento troppo vasto”) per concentrarsi su alcuni impieghi esteri delle penne nere: Eritrea (1887-1897), Cina (1900-1901) e Libia (1911-1914). «L’Italia liberale – ha detto – voleva essere più grande, ma non aveva storia imperiale alle spalle e quindi si proiettava su territori liberi da altri. Dopo la disfatta di Dogali, Crispi e Barattieri pensarono di espandersi verso l’Etiopia, mandando reparti di formazione con alpini e artiglieri da montagna, per una maggior potenza di fuoco». In Cina invece la presenza, una sola batteria di artiglieria (ma dotata di mitragliatrici), fu quasi simbolica. Ben altro impiego fu quello in Libia, dove «fummo accolti piuttosto male e dopo la prima sconfitta schierammo addirittura altri otto battaglioni».

    Il gen. Davis ha invece parlato dell’esperienza di direttore delle operazioni, ufficiale americano nei reparti italiani, in missioni come “Forza Paris” in Sardegna dopo il rapimento del piccolo Farouk Kassam nel 1992: «Per setacciare i 600 kmq del Supramonte schierammo 4 compagnie del Susa, una di parà alpini più incursori del 9º Col Moschin e del Tuscania. Fu un intervento efficace: i crimini diminuirono dell’88% e gli incendi del 53%. Il livello di disciplina – ha detto – era altissimo, come quello psico-fisico dei soldati, quasi tutti di leva: mostrarono agilità, creatività e sagacia. Come in Mozambico per Onumoz». Sfruttando foto e video dai teatri, il gen. Piasente ha tracciato un interessante quadro di missioni con alpini di leva: nel Kurdistan Irakeno (1991), Mozambico (1993- 94) e Sarajevo (1997), ultima operazione di un battaglione di leva, il Tolmezzo. «Gli alpini – ha ricordato – furono schierati nei quartieri più difficili, riuscendo a ricucire non poche ferite etniche. Il Susa dovette anche sparare in aria per contenere i serbi che si erano ripresi monte Trebevic da cui si domina Sarajevo.

    La Taurinense alimentò tre teatri diversi senza rotazione, ma fornì una solida dimostrazione di leadership: tra gli alpini – ha commentato – i generali non stanno al circolo». Positiva anche l’esperienza in Afghanistan, coi soldati professionisti «dove 130 alpini controllavano una provincia di 200mila abitanti». «Là – ha sottolineato Piasente – l’Ana è stato il 12º uomo in campo, perché ci ha fornito margine di manovra per aiutare le comunità». Il prof. Labanca è tornato poi agli impieghi “storici” degli alpini che in epoca fascista si trovano impelagati in Albania e Macedonia, con decine di batterie di artiglieria da montagna funestate più dal fango e dalla malaria che dai nemici: «Erano forze di occupazione, immagine in contrasto col mito degli italiani brava gente».

    Poco addestrati per un impiego in Africa erano gli alpini della Pusteria in Etiopia: «Non furono apprese grandi lezioni in quel teatro – ha ammesso – e la propaganda di regime si spese più a favore della Milizia che non degli alpini, tanto che il battaglione Trento entrò ad Addis Abeba a bordo dei camion, come tutti. Quella guerra non fu vinta sulle ambe, ma dalle armi moderne e gli alpini fecero da fanteria. L’Italia allora era un paese agricolo e 5mila alpini della Pusteria (su 20mila) chiesero di restare in Etiopia, perché c’era tanta terra». «Anche per questo – ha chiosato Labanca – bisognerebbe uscire un po’ dal mito della Guerra Bianca, perché la storia ci offre più di un elemento contrario». Il gen. Davis è poi tornato sui suoi tre anni al gruppo tattico Susa, impiegato in ambito Nato, come ufficiale di collegamento, sottolineando addestramento e disciplina di quegli alpini, anche di leva, che «quanto a leadership mostravano più esperienza dei colleghi americani».

    Il gen. Piasente ha quindi tratteggiato aspetti dell’impegno del 3º Alpini alla diga di Mosul, la diga di Saddam, luogo di pellegrinaggio («dove è stato evitato un conflitto nel conflitto») e ha ricordato come i nostri soldati abbiano imparato in Afghanistan a convivere col combattimento con avversari molto più determinati. «Ora – ha concluso il comandante della Taurinense – guardiamo alle sfide future, che saranno sempre diverse: per questo ci servono aree addestrative, perché ogni giorno di addestramento salva decine di vite». Il compito di concludere è toccato come sempre al prof. Labanca, che ha giudicato positivamente il fatto che le Forze armate parlino di quanto fanno, accettando il contraddittorio con il Paese. In coda è stata illustrata dalla Sezione di Vicenza l’Avgg, Alta via della Grande Guerra, che con un itinerario lungo e suggestivo unisce i quattro grandi sacrari del territorio.

    ma.cor