Alpini in fuga

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    Agenore Incrocci (1919-2005) è stato un noto sceneggiatore di molti film del dopoguerra (I soliti ignoti, La Grande Guerra, L’Armata Brancaleone, per citarne solo alcuni), ma è stato anche un alpino della Divisione Pusteria. Ha scritto questo articolo, pubblicato nel primo dopoguerra su “Il Giornale d’Italia” e riscoperto tra le carte di famiglia da Maurizio Sebben, iscritto alla Sezione di Feltre e figlio di uno dei protagonisti.

    Incrocci narra di un’avventura che lo ha coinvolto insieme ad altri sei commilitoni di cui due noti: Amedeo Sebben, classe 1916, di Fonzaso (Belluno), artigliere da montagna del gruppo Lanzo che ha custodito la documentazione e Adriano Mattiuzzi di Vittorio Veneto (Treviso), citato nell’articolo. Gli eventi si collocano tra giugno-luglio del 1944 in Francia, quando i nostri alpini, fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 Settembre 1943, erano in marcia di trasferimento verso Nord, successivamente allo sbarco degli Alleati in Normandia.

    Dopo la fuga, descritta nell’articolo, i sette amici vennero aggregati in un campo di lavoro americano a Margival, nella Francia settentrionale e ritornarono in patria nel settembre del 1945. L’episodio, con vena umoristica pur nella tragicità del momento, è stato usato dallo sceneggiatore per una sequenza del film “Tutti a casa” di Comencini, con Alberto Sordi protagonista, ambientato dopo l’armistizio.


    Si parlava di ammassare migliaia di prigionieri di guerra e ad un tratto ci trovammo soli, noi circa 300 affidati ad una compagnia del Genio aeronautico germanico, nella zona di Vendome. Avanti impossibile andare, linee interrotte, ponti saltati, il cielo pieno di aerei americani; tornare indietro neanche a parlarne. Ed eccoci fermi in un piccolo villaggio, Villetrun, a 9 chilometri da Vendrome, con le guardie che non sanno che fare perché non ci sono ordini. Intanto, più su, il fronte tedesco cedeva, andava in pezzi sotto la spinta degli Alleati. Dilagavano ad arco verso il sud tra Nantes e Le Mans, venendoci incontro.

    Noi sentivamo che il giorno della liberazione si avvicinava, mentre i segni della disfatta tedesca si preannunciavano. Le nostre guardie sembravano non accorgersi che le cose si mettevano male per loro, con quella impassibilità tutta tedesca che è fatta di incoscienza e di disciplina. C’era odore di Waterloo nell’aria. Se ne accorsero qualche ora dopo, quando venne l’ordine di ripiegare immediatamente, tirandosi dietro i prigionieri che potevano ancora essere utili. Ci fu detto di tenerci pronti a partire a piedi per le 21. Questo significava andare nei campi in Germania e forse peggio, significava prolungare la prigionia che durava da quasi un anno. No, questa era l’unica occasione favorevole per prendere congedo dalle nostre guardie (senza avvertirle, naturalmente) e andarcene.

    Ci squagliammo nella stessa direzione in sette, vecchi compagni di reggimento. Uno propose il campanile della chiesa del villaggio e come Dio volle, arrivammo fino al parroco, perché anche in tempo di guerra e con i tedeschi alle costole, rifugiarsi sul campanile di una chiesa senza il permesso del parroco non è bello. Monsieur Guay, abbé di Villetrun, accolse la nostra richiesta con un coraggio e un altruismo straordinari. Di fronte ai tedeschi egli arrischiava molto più di noi stessi. Ci diede delle indicazioni e ci disse di andare, ché lui doveva entrare in chiesa dove lo aspettavano i fedeli del villaggio per la funzione della sera.

    Raggiungere la cima di un campanile di campagna è, ve lo assicuro, meno facile di quel che sembra. Per noi si trattava di arrivarci senza essere scorti né uditi dai parrocchiani che occupavano i banchi della chiesa: troppi testimoni di una fuga possono danneggiare. Entrammo in chiesa non visti. In fondo eravamo un po’ come un’edizione popolare di quei ricercati politici che, braccati dai nazifascisti, trovarono scampo in Vaticano dopo l’8 Settembre. Con le scarpe in mano salimmo sul Coro, dove non c’era nessuno. Di lì una scala a pioli, nascosta da una tenda, ci avrebbe portati in una stanza che comunicava, pure a mezzo di una scala a pioli, con la cella campanaria.

    Era quella la nostra meta. Ma le scale a pioli scricchiolano maledettamente anche in momenti tanto gravi e diventava quindi problematico raggiungere il nostro rifugio senza essere uditi dai religiosi, a ginocchioni sotto di noi. Non c’era che un mezzo: arrivare in cima grazie alle preghiere dei fedeli. Infatti, mentre il parroco recitava da solo la prima parte di una preghiera, noi aspettavamo con il fiato sospeso che il coro dei parrocchiani rispondesse: così, approfittando di quel borbottio sbrodolato proprio delle orazioni recitate collettivamente, superavamo due o tre pioli della scala il cui gemere era coperto da quello dei fedeli. Considerando che noi eravamo sette e i pioli una decina ne risulta che per arrivare tutti in cima ci volle l’intera funzione. Mentre sotto di noi i francesi sfollavano parlottando, ritirammo la scala per misura precauzionale e ci disponemmo ad esplorare i luoghi. Ma non potevamo accendere fiammiferi (nessuno accende fiammiferi sui campanili di notte).

    Cominciarono a ronzare nel cielo gli apparecchi, lontano si udivano scoppi e boati, lanciavano razzi chissà dove. I tedeschi ora andavano e venivano proprio sotto di noi, parlavano, gridavano, e imprecavano. Eravamo convinti che ce l’avessero con noi, proprio con noi del campanile, che sapessero che eravamo nascosti lassù. Ma non entrarono in chiesa. Udimmo ansimare il motore dei loro due camion. Partivano. Non ancora. Ci cercavano forse ed erano furiosi. Non so come mi addormentai. Mi risvegliai scosso da scoppi distanti. Bombe a Biois, probabilmente.

    Il giorno non era lontano ed anche gli altri erano svegli. Parlammo sottovoce, tanto sottovoce che non ci capivamo. Ma non si udivano più i tedeschi gridare. Ad occhi aperti attendemmo l’alba e questa ci trovò incartapecoriti dalla quasi immobilità. Ci sembrò di risvegliarsi come da un incubo e il parroco ci chiamò in basso: “Les boches sont partis!” (i crucchi sono partiti, ndr). Fu il segnale. Il segnale per stirarci, per tossire, e tutti tossivamo anche senza averne bisogno. Si parlava ad alta voce, c’era più luce e si poteva vedere dove avevamo passato la notte e come Mattiuzzi aveva dormito con la testa appoggiata a qualcosa di duro: una statua di gesso. Aveva dormito con la Sacra Famiglia e ora San Giuseppe sembrava guardarlo severamente. Intanto ritorna il bravo prete con un po’ di caffè e notizie.

    I tedeschi avevano lasciato il paese in camion a mezzanotte, con pochi prigionieri. Avevano abbandonato completamente il magazzino viveri al villaggio. Bella notizia. In tre lasciammo il campanile e sulla strada ecco altri compagni. Mi sembrò di rileggere le pagine del saccheggio dei forni nei “Promessi Sposi”. Roba ce n’era ma noi eravamo tanti e con una fame vecchia di undici mesi. Fu fatta piazza pulita, poi quasi tutti presero la via dei boschi. Con i miei compagni decidemmo di festeggiare la liberazione sul campanile per partire nel pomeriggio. Riuniti nella cella campanaria ci rimpinzammo fino all’orlo, restando poi immobili come lucertole sazie al sole d’agosto. Così. Fino che “Ganassa” che guardava da una finestrella, non disse: “Ragazzi ecco qua i crucchi col capitano”.

    Erano proprio i tedeschi, una dozzina con un camion. Le nostre guardie. Ci guardammo, col fiato sospeso e le orecchie alte. Poi un mitra cominciò a sgranare il rosario, una pistola ad abbaiare. Tornavano per riprendere i loro viveri e non trovavano più nulla fino a sera, ruggendo nel villaggio e noi là in alto sentimmo tutto e vedemmo anche. Mi sembrava di essere chiuso in un baule abbandonato in mezzo alla piazza: da un momento all’altro qualcuno poteva sollevare il coperchio.

    Se ne andarono alle dieci di sera. Il bravo parroco ci venne ad avvertire e noi fuori, attraverso i campi di grano, verso i boschi. Una nuova parentesi si apriva. Gli alpini dicono, parlando di individuo che non ha fortuna, che è bistrattato, dicono che “è uno che ha fatto pipì in chiesa”. Più tardi e spesso ricordammo quelle 26 ore sul campanile di Villetrun nella Loir et Cher e si rideva. Noi abbiamo fatto questo e peggio, ma credo che Iddio ci abbia perdonati.

    Age Incrocci