«L’altra sera, una chiara e fredda sera invernale spazzata dal vento, i miei piccoli, gli orfani dei miei alpini, dormivano tutti naufragati nei grandi letti bianchi della casa austera e serena da poco preparata per loro. Dormivano il loro sonno di seta, popolato di corse spensierate al paesello alpestre, nella grande casa ancora tutta da scoprire. E nell’oscurità frusciante di innocenti pensieri e di sogni ridenti, tornai a vedere gli occhi desti e trafiggenti dei miei morti. Lente e stanche le palpebre del sonno scendevano su di essi. I miei morti, finalmente, riposavano in pace».
Così, nelle straordinarie pagine di “Cristo con gli alpini”, don Carlo rivela di aver onorato quella cambiale sottoscritta con tanti alpini mandati al massacro nella straziante assurdità della guerra: nei volti sereni dei figli dei Caduti, l’animo del cappellano trova finalmente conforto. La paternità è una delle chiavi interpretative più autentiche della figura di don Carlo Gnocchi. Paternità che don Gnocchi dispensò a piene mani nel corso di un’avventura terrena straordinaria, restituendo serenità e gioia di vivere a tanti orfani di guerra, mutilatini, mulattini, poliomielitici…
Gli stessi che si strinsero attorno a lui, il giorno dei funerali, molti portati a braccio dagli alpini, le lacrime agli occhi e un saluto strozzato in gola: parlò per loro il piccolo Domenico, dal microfono del Duomo: «Prima ti dicevo: “Ciao, don Carlo”. Ora ti dico: “Ciao, san Carlo”». Aggiunse il cardinale Giovanbattista Montini, qualche anno dopo, in occasione della traslazione della salma di don Carlo dal cimitero monumentale di Milano alla cappella del Centro “S. Maria Nascente”, a due passi da quel santuario a lui intitolato che oggi ne conserva le spoglie mortali: «Quando, nei momenti più tragici della Ritirata, egli promise ai morenti che sarebbe diventato il padre dei loro orfani figli, e quando, a guerra finita, egli guardò alla pietà immensa di file e file di ragazzi e di bambini mutilati dalla cieca crudeltà della guerra, la sua anima completamente si rivelò: era un soldato della bontà.
Darsi per il bene degli altri, consolare, sorreggere, rieducare, far vivere: questa era la sua milizia, questa la sua vocazione. Eroi eravate tutti: ma lui, per giunta, era un santo». Riscoprire i valori di fondo che accompagnano la crescita delle nuove generazioni è compito fondamentale di ogni società che voglia continuare a considerarsi civile. Senza questo sforzo pedagogico non si costruisce una convivenza pacifica, relazioni interpersonali giuste e una società ordinata.
Il gemellaggio di valori tra gli alpini e la Fondazione Don Gnocchi è l’occasione, in questo sessantesimo anniversario della morte dell’indimenticato cappellano della Tridentina, per ribadire questi pilastri come la solidarietà generosa, l’umanità forte, la pietà profonda, la semplicità intelligente, l’ottimismo inesauribile, l’amor di Patria. Valori che gli alpini di ogni tempo hanno sempre incarnato alla perfezione.
Un atteggiamento costruttivo verso la vita che faceva esclamare a don Gnocchi: «Siate sempre ottimisti, fate che gli uomini credano nel bene; non solo in quello ideale ed archetipo, ma in quello vivente e operante nel mondo. Anche nel mondo moderno. Perché, dopo tutto, questa è la verità: l’ultima parola spetta sempre al bene».