Albino l’alpino

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    Chissà perché, ma per me il nome “Albino” è sempre stato sinonimo di “alpino”. Sarà anche per l’assonanza, ma la verità è che fin da piccolo mi veniva spontaneo associare la figura del fante da montagna a quella di zio Albino. Parlo di Albino Ceroni, marito di Anna, zia della mamma e quindi mio zio acquisito, un nome che non è scritto in nessun libro di storia e che magari dice poco anche ai più anziani di Caltrano, che lo ricordano vagamente, ma che per me ragazzo ha rappresentato una figura di uomo rimasta poi indelebile nella memoria. O ancor di più sarà stato per quel ritratto a matita, schizzato su una carta per avvolgere il salame, racchiuso in una semplice cornice, che Albino teneva orgogliosamente sulla parete della sua casa in via Roma e che nella mia mente è diventato il ritratto dell’alpino.

    Come appassionato di storia non potevo rimanere indifferente alle vicende militari e umane di Albino: un ragazzo del 1921, chiamato alle armi nel gennaio del ’41, in piena guerra, imbarcato il 20 settembre dello stesso anno a Bari, con rotta il Montenegro, destinazione Cettigne.

    Esperto maniscalco, si occupava della gestione e conduzione dei muli della 239ª compagnia e il 30 novembre a Peuta, non lontano da Podgorica, venne mandato alla guida dei fedeli quadrupedi, a rifornire di armi pesanti i reparti a ridosso delle postazioni partigiane, molto attive in quel settore. Le soverchianti forze nemiche, dotate di armi automatiche, inflissero un duro colpo agli italiani tanto che – ricordava – il giorno dopo all’appello si trovarono solo in 19. Si contarono 57 caduti, 64 feriti e 42 dispersi. Alcuni di questi dispersi, tra i quali Silvio Zucchi, amico e compaesano, erano in realtà stati fatti prigionieri e vennero liberati nei giorni successivi grazie a delle trattative e all’intervento del cappellano militare, padre Ignazio Faccin, grande figura di alpino e di prete, molto rimpianto nel vicentino.

    Albino si trovò quindi coinvolto nelle vicende del battaglione Val Leogra in Jugoslavia, fino al trasferimento in Grecia, passando per Tepeleni e Ponte Perati e vivendo scontri continui con le forze di resistenza operanti in quelle regioni. L’armistizio dell’8 settembre 1943 lo sorprese a Prevesa, un porto sul mar Ionio dove, il 13 settembre, venne catturato dai tedeschi assieme ai commilitoni, che promisero ai nostri, una volta consegnate le armi, il rimpatrio. Quando arrivarono a Vienna l’illusione del rimpatrio svanì. Agli ufficiali vennero tolte le pistole, le guardie raddoppiarono i controlli e il treno ripartì per la Germania. Finì a Berlino, dapprima in un lager e poi a lavorare in Mullerstrasse alla “Solex”, una fabbrica di carburatori dove tantissimi erano gli italiani occupati. Un’ora di strada per arrivare, “inquadrati per dieci e sorvegliati da guardie armate”, turni di 12 ore e poi un’altra ora per il ritorno.

    Il pranzo era rappresentato da un chilo e mezzo di pane nero diviso in sette, pochi grammi di margarina e poca “sbobba” di verdure. Disperata la caccia a qualche patata o a qualche barbabietola, raccolte dal secchio degli avanzi della mensa dei tedeschi. Visse i tremendi bombardamenti su Berlino, tra cui quello micidiale del 3 febbraio 1945 e il 26 aprile, assieme ai compagni, venne liberato dai russi. Dopo mesi di privazioni la fortuna volle che lui e i suoi amici scovassero un magazzino pieno di ogni ben di Dio, come ricordava: latte condensato, cioccolato, carne, vini pregiati, sigarette. Una fortuna che permise loro di sopravvivere fino a quando furono trasferiti in un centro di raccolta a Buchow, alla periferia di Berlino.

    Tornò in Italia il 3 settembre di quell’anno. A Caltrano riprese, assieme al fratello Santo, il mestiere di maniscalco ed avviò un’attività di fabbro e lattoniere. Con zia Anna mise al mondo Giancarlo, Franco, Dario e infine Sandro, che continua ancora oggi il lavoro del padre. Me lo ricordo nell’officina dietro casa, intento a forgiare ferri per i cavalli e i muli e me lo vedo anche balzare da un tetto all’altro a fissare “gorne” (grondaie) o cambiare lamiere o gridare al figlio Franco, con il suo vocione squillante. Un uomo tutto d’un pezzo.

    Lo ricordo nelle cerimonie in paese, sempre impettito sull’attenti, il cappello alpino fieramente in testa, gli occhi lucidi che inseguivano tanti ricordi, lo rivedo nelle rievocazioni patriottiche quasi sempre accanto all’onorevole Onorio Cengarle, suo amico, anche lui soldato del Val Leogra ed ex prigioniero in Germania. La passione per gli alpini e per il mondo alpino erano il tratto distintivo di Albino, che mai mancava alle adunate delle penne nere. Fu proprio durante una di queste adunate, a Firenze nel 1975, che visse un’avventura molto particolare.

    Come racconta anche un articolo del quotidiana “La Nazione”, che lui conservava gelosamente, Albino e l’amico compaesano Fioravante Dal Santo (da tutti chiamato “Piero Scocio”) decisero, quel 17 marzo, di inoltrarsi nei paraggi della città toscana, verso Fiesole, ed il destino volle che si fermassero a bere “un’ombra” e a intonare canti alpini. Ad un certo punto si avvicinò loro un signore che li osservava da un po’, il quale chiese all’oste un foglio. Questi gli portò la carta che teneva per avvolgere i salami e il signore cominciò a tracciare pochi ma decisi segni che si tradussero nel volto dei due simpatici e goderecci alpini caltranesi, lasciando loro a fine serata quello schizzo che immortalava un sereno pomeriggio di allegria e spensieratezza.

    Questo signore era Pietro Annigoni, uno dei più importanti pittori italiani del ‘900, un artista eccezionale, conosciuto come il “pittore delle regine” perché aveva ritratto da poco sua maestà Elisabetta II di Inghilterra ed era ricercato da tanti altri regnanti che ambivano un suo dipinto. L’artista, che portava dei vistosi basettoni, lasciò ai due anche una dedica autografa e il proprio piccolo “autoritratto”, con tanto di cappello alpino in testa. Albino, l’alpino che ne aveva passate tante in guerra e da prigioniero, esibiva orgoglioso nella sua casa questo disegno. Un disegno a matita, eseguito velocemente su carta per avvolgere il salame, che per me resterà per sempre l’immagine di un semplice, grande alpino. Anzi dell’alpino.

    Loris Sandonà