Zona franca

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Rubrica aperta ai lettori.

Un volontario alpino in servizio: orgoglioso
della penna. Quando c’è




Sono un alpino di 25 anni da sempre affascinato, grazie anche alla mia famiglia, dai valori e dalle tradizioni appartenenti al Corpo degli alpini.
Per questa ragione, terminati gli studi delle scuole medie superiori, con profondo entusiasmo ho deciso di far parte degli alpini in modo totale, arruolandomi in un reparto alpino come volontario in ferma breve prima, e successivamente in
servizio permanente.
Tengo a sottolineare che sono orgoglioso di quello che faccio e di quello che ho già fatto (sono stato impiegato in tre operazioni di pace all’estero), perché credo che nella vita svolgere un lavoro che ti permette di aiutare gli altri, seppure dovendo passare dalla terribile strada delle armi, sia una fortuna e non un merito per chi lo fa.
Premesso questo, da circa un anno sono socio dell’A.N.A. e con grande gioia ogni mese ricevo il giornale L’Alpino, che leggo con grande attenzione. Nel numero del mese di ottobre, due articoli mi hanno convinto a scrivere questa lettera: quello di pagina 7 riguardante l’uso delle penna nera, e quello di pagina 8 9, a riguardo del significato di essere alpini.
Per quanto riguarda il primo, con grande rammarico le posso assicurare che in tutte le occasioni in cui sono stato impiegato all’estero ho sempre indossato l’elmetto senza mai poter mettere la nostra prestigiosa penna (cosa tecnicamente fattibile senza nessun problema per la nostra incolumità), al contrario dei nostri amici bersaglieri che ovunque vanno sono sempre seguiti dalle loro mille penne, in qualsiasi circostanza.
La disparità di questo trattamento deriva dal fatto (lo dico con l’amaro in bocca) che per qualche oscura ragione, qualcuno si sta impegnando per cancellare l’anima degli alpini, con la conseguenza di voler valorizzare altri corpi, quali appunto bersaglieri e paracadutisti.
È un problema che per assurdo vivo io stesso nel mio reparto (costituito esclusivamente da volontari), dove il 90 del personale effettivo vive l’essere alpino quasi come una punizione, e non vede l’ora di chiedere il trasferimento in una sede nel sud del nostro Paese. Tutto ciò viene aggravato dal fatto che nessuno fa niente per insegnare a questi ragazzi e ragazze (alcuni dei quali sono delle persone meritevoli), le basi che fondano il concetto, la mentalità e la fortuna di portare il cappello alpino.
Infatti, nel mio piccolo, quando ho invitato alcuni colleghi ad attività promosse dal mio gruppo ANA, sono rimasti stupiti dalla genuinità e dalla spontaneità con le quali sono stati accolti da tutti, e soprattutto dai veci , che rappresentano il nostro vero patrimonio storico, culturale ed umano.
Al contrario nelle normali attività di addestramento, oggi gli alpini stanno diventando un semplice corpo di fanteria, dimenticando che la nostra vera casa è la montagna perché, a causa di problemi di natura anche economica (non ci
sono soldi per pagare gli straordinari) determinate attività vengono ridotte al minimo.
Mi rendo conto che la necessità di un esercito professionista è inevitabile, ma ricordiamoci che gli alpini alle origini sono stati fondati con un requisito ben specifico: arruolare personale che fosse già integrato con l’ambiente alpino e che conoscesse quindi le nostre tradizioni, poiché come qualcuno ha scritto: alpini si nasce, e non tutti possono diventarlo successivamente.
Mi allaccio quindi al problema che senza la leva è a rischio la sopravvivenza dell’A.N.A, e di tutto quel mondo fatto di valori messo in crisi da una società sempre più distratta, in quanto oggi un ragazzo di 20 anni, sogna di diventare un attore, o un cantante, ma non vede alcuna gratificazione nel servire il proprio
Paese. Per questa ragione credo che gli alpini dovrebbero avvicinarsi di più al mondo giovanile, con attività specifiche, per invogliarli ad entrare nella famiglia alpina , che sicuramente non offre fama e popolarità ma può insegnare qualcosa di molto più importante. Ricordando infine che il requisito fondamentale rimane l’aver prestato servizio militare negli alpini, altrimenti il rischio è che l’A.N.A. diventi un’associazione qualunque, priva delle sue autentiche radici.


Lettera firmata




Riservista richiamato in Kosovo




Grazie a precedenti e interessanti esperienze fatte con il 14º reggimento alpini in qualità di ufficiale richiamato ho avuto la possibilità di seguire il reggimento in Kosovo per la missione fuori area, nella mia nuova veste di appartenente alle forze di completamento. Nell’occasione ho comandato il distaccamento di Decane Kosovo, inserito nella Task Force Falko del 14º rgt. alpini formato da volontari, la maggioranza dei quali proviene dal centro sud ed arriva da altri Corpi. Dopo questa esperienza posso dire che tutti questi ragazzi sono abbastanza motivati e convinti della loro scelta professionale. Eventuali cambiamenti riguardano l’impiego ed i compiti assegnati: sono venute meno per esigenze contingenti (preparazione ed impiego in missioni all’estero) le esercitazioni che erano tipicamente alpine, quali campi estivi ed invernali, si sono ridotte sia di numero che di personale le esercitazioni specifiche, roccia, sci, ecc.
Risulta essere invece molto più intensa la preparazione specifica in merito ai compiti attuali di impiego.
Per quanto riguarda i Quadri, ho trovato persone preparate e motivate a tutti i livelli. Unica nota stonata sta nella mancanza cronica di personale proveniente dalle regioni alpine, ma la colpa di questo è soprattutto nostra, in quanto non sappiamo far capire ai nostri ragazzi che la carriera e la vita militare non sono da rifuggire ma occasioni di crescita morale e professionale, anche in prospettiva di una loro applicazione in campo civile. Probabilmente il segnale lanciato un alpino
per ogni gruppo ANA , non ha sortito l’effetto desiderato. Peraltro, sono sempre più convinto che le Truppe alpine hanno bisogno del sostegno attivo dell’Associazione.
L’esperienza del richiamo mi ha dato molto, oltre alla possibilità di rivivere l’esperienza della vita militare, quella di effettuare missioni all’estero ed in frangenti durante i quali si è a diretto contatto con i problemi e le sofferenze vissute dopo una guerra. Ci si rende conto direttamente di quanto sia indispensabile l’operato delle forze di pace, si toccano con mano i problemi e si
ha la possibilità di essere veramente utili per il funzionamento di un apparato senza il quale, in queste martoriate terre, non ci sarebbero speranze né per il presente né per il futuro. In merito al discorso della riserva, credo che anche in Italia ci si debba decidere a rivedere le leggi che regolano questo istituto ed a
modernizzare e rivalutare il ruolo dei riservisti.


capitano Giacomo Giorgi (sezione Vallecamonica)