Strage mai dimenticata

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    Ancora qualche finestra illuminata nelle case di Erto e Casso, poggiate quasi in bilico sul Monte Salta, e più giù, nelle case di Longarone. Una serata tiepida di ottobre, come tante altre. Gli occhi chiusi dei bimbi già avvolti nel calore dei loro lettini. Gli uomini riuniti nelle osterie sparse qua e là a guardare un incontro di calcio trasmesso in Eurovisione. La normalità di un mercoledì sera, la normalità del vivere quotidiano di tre paesi sorti sul confine tra Veneto e Friuli, di quelle voci unite in un miscuglio di dialetti più aspri e più dolci.

    Arrivarono così le 22 e 39 del 9 ottobre 1963, tra un’ombra e un taglio di vino con gli occhi fissi al televisore. D’un tratto inatteso un bagliore, quindi un boato come a segnare la fine del mondo: venne l’aria, poi l’acqua. L’onda di duecentocinquanta milioni di metri cubi provocata dalla frana del monte Toc piombata nella acque del lago artificiale, prese due strade: colpì i villaggi di Frassen, San Martino, Col di Spesse, Patata, Il Cristo. Quindi arrivò ai bordi di Casso, Erto e Pineda. Superata la diga, puntò dritta verso valle e inghiottì, vorace, Longarone. Travolse Codissago e Castellavazzo. E ancora Villanuova, Pirago, Faè, Rivalla. Poi si perse lungo il Piave. Bastarono quattro minuti a mutare quel paesaggio per sempre. Quattro minuti a sconvolgere generazioni diverse di uomini e donne. Quasi insperato venne il giorno dopo. Ecco allora che agli occhi fu svelato ciò che aveva sconvolto, nella notte, tutti gli altri sensi: Longarone non era più. Le vacche gonfie come palloni, capovolte lungo la strada per Fortogna.

    Nessuna maceria, nessun resto di casa, solo una piana coperta dalla ghiaia del Piave, una piana che il 10 di ottobre si riempì di uomini. Essi scavarono giorni interi e le notti ricacciavano il sonno per non esser preda di dolorosi fotogrammi di corpi devastati dall’aria, dall’acqua e dalle cose. Insieme ai vigili del fuoco, ai carabinieri, alla polizia giunsero sul posto anche gli alpini, in armi e in congedo. Tra loro Lino Chies: di Mariolina Cattaneo “Quanti furono gli incubi notturni! a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro e tutti uguali: l’acqua al collo e poi mattoni, ovunque travi e calcinacci. Centinaia di corpi straziati. Poi di colpo il risveglio, la mano cerca l’interruttore della luce per ristabilire un contatto con realtà, per placare lo sgomento. Ecco allora tornare la calma. La mente cessa di pescare tra i ricordi più tristi. Sta per nascere un nuovo giorno, il passato non può più ferire“.

    Chies allora era sotto naja, nel Sesto da montagna, e a Longarone ebbe l’incarico di accogliere gli emigranti. Sì perché Longarone era la patria del gelato e in tanti avevano prestato il proprio talento alle pasticcerie nel resto d’Europa. Immaginate un uomo in un paese straniero. Immaginate un uomo allertato a cui dicono di rientrare perché è accaduto un disastro che non si può descrivere. Un uomo che parte e arriva. Un uomo a cui ora non resta che un pugno di ghiaia. Chies ne parla, ma con riserbo.

    Non si può comprendere cosa fu il Vajont e l’eredità terribile che lasciò nel cuore di ognuno. Il fotoreporter Bepi Zanfron fece migliaia di scatti. Racconta: “La procura mi chiese di fare le foto delle vittime per il riconoscimento dei parenti. C’erano uomini di buona volontà che lavavano le facce e io facevo le foto a quel che restava del viso. Per tre giorni e tre notti ho fotografato morti. Per settimane li ho anche sognati. Poi ho trovato questa, la mia foto preferita, la più bella, e sono guarito. È la foto di due bambini, vivi”. Tante le storie che si intrecciarono in quei giorni dopo il disastro. Come quella di Luciano Basso, alpino di Vicenza che ora non c’è più. È sua figlia a parlarci di lui. E di un bambino che quel 10 di ottobre si ritrovò solo nella piana desolata. Piangeva. Luciano per primo rispose a quel grido che chiamava mamma e papà.

    Lo prese in braccio e il bimbo si avvinghiò a lui. Su di un elicottero lo vegliò fino all’arrivo nell’ospedale San Martino a Belluno. Dopo il ricovero, Luciano lo cercò sempre, ma senza fortuna. Non lo dimenticò mai. Prima di morire pregò sua figlia Deborah: “Trova quel bimbo e abbraccialo tu per me”. Noi speriamo che questo sogno si avveri. Sono passati cinquant’anni, ma di certo quel bimbo che oggi è un uomo, porta il Vajont in una parte del suo cuore. Come le donne e gli uomini ripresi dalle telecamere in bianco e nero dell’epoca. Essi vagano sulla piana alla ricerca disperata di un frammento che li riconduca alla propria casa, alla vita del giorno prima. Nell’aria l’odore dei morti, lo sgomento negli occhi di ognuno. L’obiettivo indugia ancora: un uomo ben vestito sorregge in un abbraccio la sua donna. Insieme si inginocchiano, pregano.

    Un cimitero senza croci, questo fu il Vajont. Non una natura impazzita e rivoltosa, ma la colpa dell’uomo d’aver perseguito incurante e prepotente la sua smania di ricchezza. Millenovecentodieci i morti accertati, di cui solo la metà riconosciuti, di cui quattrocento mai ritrovati. Cinquecentodiciotto i bambini. Un processo che durò anni e che alla fine sancì la colpa: omicidio colposo plurimo. Le condanne furono poca cosa, ma alla gente del posto andò bene così. Essi, infatti, non cercarono mai alcuna vendetta, confidavano invece in una giustizia che stabilisse il principio della responsabilità umana. Perché le frane, le ferite aperte nella montagna i mesi prima di quel 9 ottobre, le perizie d’allarme di Miller e di altri geologi insabbiate con cura, il significato celato dietro ai nomi monte Toc, marcio, monte Salta e Vajont, va giù, non furono mai né fantasie né superstizioni di montanari ignoranti. Ma indizi d’un disastro certo a cui si andava incontro consapevolmente, passo dopo passo.

    La notte del 9 ottobre non ebbe mai alba. Come una scure lacera il legno, in ugual modo essa incise per sempre l’animo dei sopravvissuti e dei soccorritori. Si salvò solo quella maledetta diga: è ancora là, indifferente all’accaduto, quasi fiera d’aver resistito. Un muro inutile che pare una lapide.

    Mariolina Cattaneo