Zona franca

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    Rubrica aperta ai lettori.

    Amareggiati sì, frustrati no


    Caro direttore,
    ho letto con il consueto interesse il numero di ottobre de L’Alpino e sono stato colpito, non favorevolmente però, dal contenuto degli articoli Niente penne, siamo alpini e Alpini si nasce che, non essendo firmati, debbo ritenere ppresentino il pensiero del direttore o quello dell’Associazione. Chiarisco che non intendo, in modo assoluto, contestare ad alcuno il diritto di esprimere le proprie idee ma ritengo, quale comandante delle Truppe Alpine, mio preciso dovere confutare affermazioni prive di fondamento. Nel primo articolo si sostiene che gli Alpini oggi impegnati in operazioni fuori dal territorio nazionale
    non abbiano, sull’elmetto, il simbolo della specialità: la penna. Come se non bastasse si sostiene, poiché capita che a pensar male ci si azzecchi , che lo Stato Maggiore dell’Esercito (e perché non il Comando Truppe Alpine?) abbia ordito o subìto una congiura a favore dei Bersaglieri.
    La prima affermazione è del tutto priva di fondamento perché tutti i Reparti Alpini che sono stati e sono impegnati in operazioni all’estero hanno posto sull’elmetto, senza bucarlo, la nostra penna. Se ce ne fosse bisogno, di ciò esiste la documentazione fotografica presso questo Comando. La presenza nei reparti alpini di personale senza la penna sull’elmetto è invece legata alla configurazione stessa dei contingenti che comprendono, oltre al personale dell’Arma Base (Alpini o Bersaglieri che siano) anche componenti di altre Armi o Specialità (Trasmissioni, NBC, ecc.).
    Circa il supposto complotto a danno degli Alpini, data per scontata la sua assurdità, mi limito ad osservare come diffondere idee o sospetti di questo tipo non giovi ad alcuno e produca sterili discussioni e dannose contrapposizioni.
    Per quanto riguarda il secondo articolo, non desidero contestare l’affermazione che Alpini si nasce. La condivido, anche se sono persuaso che non sia la latitudine del luogo di nascita a fare da discriminante (il Cap. Reitani, protagonista di Centomila gavette di ghiaccio , è di Catania!) bensì la ricchezza interiore e la forza del carattere che, grazie a Dio, non sono condizionate da confini geografici o amministrativi. Desidero invece sottolineare la palese contraddizione in cui l’estensore cade quando prima afferma che chi ha fatto la naja alpina ha fatto un’esperienza positiva perché è stato impegnato (da chi se non dai Comandanti?) senza riuscire ad avere un istante libero ed ha imparato la differenza fra autorità ed autorevolezza (di chi se non dei Comandanti ?) e poi sostiene che siamo stati noi che abbiamo fatto speciale la nostra leva, portando in essa tutte quelle qualità che già possedevamo . In secondo luogo, devo contestare
    l’affermata frustrazione degli effettivi per le riduzioni che hanno subìto le Truppe Alpine. Personalmente ho provato amarezza e dolore per la soppressione di tanti Reparti (anche non Alpini) ricchi di gloria e di tradizioni, questo sì, ma non ho mai provato senso di frustrazione perché ho inteso questi provvedimenti come la conseguenza di scelte e di decisioni legittime
    di chi rappresenta il Paese. Parimenti è assolutamente priva di fondamento l’affermazione che la sospensione della leva sia la conclusione trionfale di un’opera di demolizione voluta dai poteri politici e militari , piuttosto che la conseguenza di una valutazione seria e responsabile che ha condotto a
    scelte che possono essere anche non condivise, non solo dall’Associazione Nazionale Alpini, ma che sono coerenti con i mutamenti del quadro geo politico internazionale e con la stessa volontà del Paese.


    Ten. Gen. Bruno Iob Comandante Truppe Alpine


    Il significato della memoria


    I monumenti, i cippi, le croci dinanzi ai quali ci ritroviamo ogni anno per rivolgere un reverente pensiero alla memoria dei Caduti della Guerra 1915 1918 e della Guerra 1940 1945, impongono oggi alcune riflessioni. Davanti a questi monumenti ci ritroviamo in numero sempre minore, ma ci è di conforto vedere al nostro fianco persone cui l’anagrafe ha evitato gli orrori della guerra.
    Quando rivolgo un pensiero reverente alla memoria dei coetanei scomparsi, io colgo spesso, nell’espressione dei giovani che ci ascoltano, una sorta di rispetto misto all’incapacità di capire, di cogliere appieno il significato del nostro ricordo. Capita infatti a noi veterani, di percepire nella stupita perplessità di molti giovani, delle grosse lacune storiche.
    Molti di noi se ne rattristano. Ma è un fatto più che naturale. Quando, ancora adolescenti, negli anni del primo dopoguerra, noi sentivamo parlare i vecchi della prima guerra mondiale, li ascoltavamo con il rispetto che si doveva ai nonni. Ora noi parliamo, a nostra volta, ai giovani, di avvenimenti che risalgono
    solo a 60 anni or sono, ma in un mondo che in questi sei decenni ha bruciato i tempi portando, assieme al benessere economico, al sovvertimento dei nostri ideali. Tutto questo ed altro io ricordo quando mi raccolgo in preghiera con i reduci sopravvissuti a quelle tragiche giornate per onorare coloro che la guerra ha stroncato a vent’anni. Ma c’è un’altra guerra, della quale nessuno parla. Quella che tutti i superstiti del secondo devastante conflitto hanno dovuto
    combattere al loro ritorno. Ci rimboccammo le maniche, tutti, e combattemmo un’altra guerra, non meno dura, per taluni aspetti: la guerra per procurarci il pane. Ricordando tutto questo, mi è di conforto il fatto che i nostri sacrifici di allora hanno fatto capire a molti uomini che è assurdo impugnare le armi contro altri uomini solo perché nati un po’ più a nord o a sud o ad est o ad ovest della nostra terra natale, come purtroppo ancor oggi accade presso altre genti. Mi è di conforto il fatto che stiamo dando vita ad un’Europa unita dove non ci siano più né vinti né vincitori, ma solo uomini volti a costruire una civiltà sempre migliore.
    A voi più giovani, dunque, l’impegno di ricordare il sacrificio dei nostri e vostri padri che immolarono la giovinezza per quelli che allora erano ritenuti valori ideali.


    Sergio Pivetta Milano


    Alpini anche gli amici ?


    Decidano i capigruppo Mi è arrivato l’altro ieri il numero di ottobre della nostra rivista e l’ho divorato con la solita sete di notizie. Un articolo in particolare ha destato la mia attenzione: ‘Alpini si nasce’, a pagina 8. Sperando di non disturbare, vorrei entrare nella discussione come incita l’articolo nelle ultime righe.
    Ho fatto l’alpino semplice al btg. Vicenza nel 1984, sono l’attuale capogruppo di una piccola realtà della sezione di Gorizia. Sono perfettamente d’accordo con l’affermazione dell’articolo: alpini senz’altro si nasce. C’è qualcosa che è insito nel DNA e che fa di noi degli alpini prima ancora di avere la penna sul cappello. La leva e poi la naja nelle Truppe alpine hanno solamente reso esplicito quello che prima era nascosto nei cromosomi. Io, però, mi sento di poter fare senz’altro anche un’altra affermazione: senza questa fortuna, cioè
    quella di aver fatto l’alpino (tengo a precisare che io sono l’unico tra i 60 miei coetanei, ad aver indossato, come dite voi, un ‘buffo copricapo’), adesso difficilmente sarei qui a far parte di questa grande e meravigliosa famiglia. Quindi la mia domanda è: come fare per sapere chi è un alpino?Se non esiste
    più la leva, che compl
    eta la maturazione di un ragazzo e lo fa diventare uomo, con cosa e come sostituire questo strumento?La discussione è già aperta da qualche anno e anche nel ‘mio’ piccolo gruppo se ne parla.
    Senza farla troppo lunga si può affermare che senza la naja, a mio giudizio, le persone (uomini e donne) matureranno più tardi, quando i fatti della vita le faranno crescere. A quel punto devono essere i gruppi, cioè la base, che le riconosce e cerca di motivarle ad entrare nella nostra famiglia. In fin dei conti se lo Stato sceglie i professionisti per l’Esercito, noi possiamo fare altrettanto
    e scegliere i nostri nuovi soci. Questo praticamente esiste già: quando c’è la domanda di un nuovo socio è il gruppo che la valuta e vede se questa persona è ‘degna’ di fare parte della nostra famiglia. Noi adesso dobbiamo avere il coraggio, scusate se adesso dirò una bestemmia, di fare un ulteriore passo e
    concedere anche agli ‘amici degli alpini’ che hanno già nei cromosomi prima e nel cuore poi, di portare il cappello.
    Non dobbiamo assolutamente fermarci a quello che eravamo. Noi dobbiamo continuare ad evolverci, a migliorare, pur senza dimenticare la nostra storia. In fin dei conti, nel 1919, quando siamo nati, non esisteva la Protezione civile.


    Pierpaolo Petruz Gradisca d’Isonzo (GO)


    C’era una volta la caserma Fantuzzi


    Sono un ex componente della fanfara della Brigata alpina Cadore, arruolato con il 7º/91. Qualche tempo fa, per la prima volta dal mio congedo, sono ritornato a Belluno, con mia moglie. Sono rimasto costernato nel vedere la caserma Fantuzzi così abbandonata e lasciata a se stessa. Eppure, quasi
    non ci volessi credere, ho provato infantilmente a suonare il campanello alla porta carraia. Naturalmente nessuno ha risposto, non c’era nessuno all’interno.
    Il mio cuore mi faceva ancora sentire le voci, mentre i miei occhi continuavano
    a voler cercare le sagome di qualcuno del personale in servizio alla carraia che da alpino di leva vedevo abitualmente in maniera indefinita dall’esterno, attraverso le finestre al rientro dalla libera uscita o da una licenza.
    Chi mi conosce sa che non sono assolutamente un fanatico, che sono schivo dalle celebrazioni fine a se stesse: per nulla abituato ai toni altisonanti della retorica, ritengo che il ‘chiasso’ non fa bene e il ‘bene’ non fa chiasso.
    Tuttavia sono un romantico, inguaribilmente convinto della bontà e preziosità del rapporto umano, che deve essere ad ogni costo privilegiato rispetto alla materialità, una vera fonte di ricchezza per la vita di ognuno. Pensando alla brigata Cadore sento di custodire un’esperienza preziosa, grandiosa e ricca
    di incantevoli ricordi; tuttavia con la consapevolezza che non potrà più ripetersi e che i cancelli di quella che comunque continuerà ad essere la ‘mia’ caserma Fantuzzi, mi sono stati chiusi per sempre.


    Adriano Sarti Mortegliano (UD)