Zona franca Dalla Russia con (poco) amore

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    Rubrica aperta ai lettori.

    Nel numero di giugno de L’Alpino è stata pubblicata, nella rubrica Lettere al direttore , una testimonianza di Andrea Garatti che non era in linea con quanto scritto da Giulio Bedeschi nel suo libro Centomila gavette di ghiaccio sul trattamento ricevuto dai nostri soldati al loro rientro in Italia dalla sfortunata Campagna di Russia. Nella risposta si invitavano i reduci a dare la loro versione in merito, allo scopo di chiarire la ragione di versioni contrastanti. Ecco alcune risposte:

    Aproposito di Quelli che sono tornati di Andrea Garatti, il Brennero l’ho passato anch’io: se vogliamo davvero che a chi viene dopo di noi venga consegnata una versione più obiettiva di quella del caro Bedeschi, a fate schifo va aggiunto brutti straccioni . Tanto per la verità.

    Giacomo Arata Santa Margherita Ligure (GE)

    Mi preme fare qualche precisazione. Anzitutto, la visita del gen. Gariboldi ha avuto luogo all’ospedale di Cesenatico e non a Dresda. In quella città erano state le infermiere tedesche a trattarmi con tutti i riguardi e che a me, nelle condizioni in cui ero ridotto, erano sembrate autentici angeli caduti dal cielo. Quanto al non affacciarsi ai finestrini della tradotta, sarebbe stato l’invito dell’ufficiale ai suoi soldati per non far paura alla gente, tanto erano sfigurati. Nessun affronto neanche qui, quindi, anzi Ma un vero e proprio riconoscimento al loro sacrificio.

    Andrea Garatti Artogne (BS)

    Andrea Garatti chiede se è vero che i nostri reduci di Russia, al loro rientro in Italia 1943, non sempre vennero accolti bene. A me risulta il contrario: al Brennero, a San Candido per la contumacia, a Udine dopo. Solo ripartendo da Vienna il 19 marzo ’43, mentre si ritornava in Italia con la nostra povera tradotta di vagoni merci, un ignoto ferroviere austro tedesco ci salutò, forse per scherno, mostrandoci il pugno chiuso! Era comunista?Può darsi. É certo però che fra noi reduci durò a lungo una specie di disagio morale per essere stati inviati in Russia: molti evitavano di parlare apertamente di quanto successo e preferivano non farsi notare

    Guido Vettorazzo Rovereto (TN)

    Sono rimasta molto perplessa nel sentire che i nostri soldati di ritorno dalla Russia siano stati accolti bene! Mio marito, da poco andato avanti , era artigliere della Tridentina ed ha vissuto sulla sua pelle la ritirata di Russia. La tradotta si fermò tutto il giorno su di un binario morto aspettando la notte buia per non far vedere al mondo la pietà e la miseria umana dei nostri giovani. Arrivarono a Udine carichi di pidocchi, sporchi, stanchi, affamati, ma il ristoro è stato misero, per non dire nullo.

    Gemma Turle Terragnolo (TN)

    Aprescindere dai preziosi aiuti ottenuti durante la ritirata da italiani, tedeschi, ungheresi, donne russe, l’8 febbraio 1943, proveniente dall’ospedale tedesco di Kiev con il treno ospedale 33, sono giunto a Udine dove venni accolto festosamente. Sul treno in sosta sono salite numerose donne e uomini che angosciati chiedevano notizie del loro caro. Purtroppo non sono riuscito a rispondere alle loro richieste se non negativamente.

    Pietro Fabris Milano

    Sono l’allora sten. Ubaldo Astore, classe 1917, in forza al btg. Vestone del 6º Rgt. divisione Tridentina, reduce dal fronte russo dopo la ritirata dal Don fino a Bjelgorod, fra cui sei combattimenti compresa Nikolajewka. Rientrai in Patria il 20 febbraio 1943, col treno ospedale nº 6, partito da Karcow diretto a Loano. Giunto alla stazione ferroviaria di Bolzano, ferito alle gambe e con mani e piedi parzialmente congelati, non potendo scrivere, dal finestrino pregai qualcuno dei numerosi presenti in stazione di mandare un telegramma alla mia famiglia annunciante il mio rientro. Fra il pubblico, fra applausi ed incoraggiamenti, vi fu una gara per esaudire il mio desiderio e difatti, lo stesso giorno, un telegramma giunse alla mia famiglia.

    Ubaldo Astore Sanremo

    Confermo che gli alpini al loro ritorno in Italia, dalla ritirata di Russia, furono trattati male. Questo mi fu detto da mio padre, Tassan Silvio, gruppo Val Piave, 3º artiglieria da montagna. Ricordo benissimo, disse che quando il treno al ritorno sostò alla stazione di Feltre, fu accerchiato dai carabinieri e fu loro vietato di affacciarsi ai finestrini.

    Giancarlo Tassan Feltre (BL)

    Non sono un reduce, ma penso che la mia testimonianza possa essere egualmente valida. All’epoca del ritorno dei reduci avevo 12, 13 anni, ero un ragazzino che viveva in un villaggio formato da una quindicina di famiglie contadine (Torre d’Accelio Cuneo). In ogni famiglia qualcuno era stato mobilitato negli anni della guerra. I pochi che tornarono vennero considerati degli eroi dai propri familiari ma il borgo li etichettò da codardi. Ne ricordo uno in particolare: Mario Pasero di Roata Lerda. Penso fosse un ufficiale o sottufficiale della Cuneense. Quando rientrò dalla prigionia in Germania si chiuse in casa vivendo solo di notte. Morì anni dopo in solitudine completa, un eremita.

    Mario Maffi Cuneo

    Mio padre, artigliere alpino Angelo Lingeri classe 1914, ha sempre raccontato a me ed alle mie sorelle, quando eravamo bambine, ed oggi mi ha confermato che al ritorno dalla Russia lui e gli altri soldati che erano sul treno erano talmente magri, sporchi, laceri e pidocchiosi che furono fatti scendere di nascosto e tenuti accuratamente lontani dagli sguardi della popolazione. Lo raccontava perché lo aveva molto ferito che ci si vergognasse di loro dopo le sofferenze patite.

    Mari G. Lingeri

    La partenza per il rientro (dalla prigionia in Russia) avvenne nei primi giorni del mese di novembre 1945, via Mosca, Varsavia, Francoforte sull’Oder e Austria. Quando ci fecero salire sul treno per ritornare a casa non riuscivamo ancora a credere che stesse realmente accadendo. Ero moralmente e fisicamente debilitato, pesavo solo 45 chilogrammi rispetto agli 85 di quando ero stato arruolato. Prima di rimpatriarci ci vestirono alla meno peggio. Io ebbi un paio di scarponcini appartenuti ad un ungherese, braghe militari di chissà quale nazione e camicia rossa, bianca a girocollo. Al passo del Brennero siamo giunti di notte; due uomini di cui, a causa della luce della pila che ci puntavano negli occhi, non sono riuscito a riconoscere la divisa entrarono nei carri bestiame per verificare se ci fossero infiltrati tedeschi o donne. Non ricevemmo parole di conforto o di augurio da questi connazionali, ma solo rimproveri sprezzanti e insulti.

    Gustavo Manente

    Mio padre non faceva altro che ricordare e parlarci della sua permanenza in Russia e di come una volta ritornato in Patria, in treno, non dovevano nemmeno sporgersi dal finestrino in quanto avrebbero fatto paura alla popolazione che li vedeva come erano ridotti e quant’altro. Pertanto voglio confermare anch’io quanto ho sentito da mio padre.

    Rosalina Seganfreddo Povolaro di Dueville (VI)

    Queste sono alcune delle testimonianze arrivate in redazione. Non vengono riportate numerose telefonate che, quasi tutte, confermano un’accoglienza fredda, se non umiliante, di quelli che per primi sono rientrati attraverso il Brennero. La nostra raccolta di memorie non ha la pretesa di dare delle risposte definitive a quesiti inquietanti. Le diverse e talvolta contrastanti versioni dei fatti riportati dipendono, a nostro parere, dai tempi e dalle modalità dei rientri.

    I primi a raggiungere il Brennero, nel febbraio del ’43, c
    ioè quelli che avevano retto alle durissime prove dal Don a Nikolajewka, probabilmente incontrarono un’accoglienza fredda o peggio da parte di qualcuno perché il regime non poteva ammettere che la Campagna di Russia fosse stata un gravissimo errore. Successivamente, col rientro dei feriti e dei reduci, con l’assillante ricerca di notizie da parte dei familiari dei dispersi, e la consapevolezza che la guerra stava portando l’Italia alla rovina, l’atteggiamento è cambiato. Costante invece è stata la buona accoglienza da parte della popolazione, delle organizzazioni sanitarie e della Croce Rossa.

    Con queste testimonianze si vuole comunque rendere omaggio a tutti quelli che, vivi o Caduti, hanno vissuto una delle più grandi tragedie della nostra storia: oltre ottantamila giovani soldati spariti nel nulla in due settimane e centocinquantamila rientrati con un fardello di sofferenze nella memoria che non riescono a cancellare.

    Pubblicato sul numero di novembre 2010 de L’Alpino.