Walter Bevilacqua, Alpino

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    Walter era uno degli ultimi pastori della Val Divedro, un lembo di terra ossolana di confine dove in pochi passi i nomi cambiano da Bevilacqua a Franz. Il suo regno era la montagna e della montagna il suo carattere aveva preso i tratti più distintivi. Era sobrio, concreto, abitudinario. I segreti della vita in quota gli erano stati trasmessi dal nonno Camillo con cui era cresciuto, i ritmi di vita impressi dalla cadenza delle stagioni, d’estate sull’alpe con gli animali al pascolo, in autunno la transumanza e la discesa in valle, per l’inverno.

     

    Mai lontano, se non per il servizio militare svolto all’opposto del suo mondo, al confine orientale, a Pontebba, come artigliere nel gruppo “Belluno”. I suoi affetti erano le sorelle Mirta e Iside, la sua famiglia gli amici alpini del gruppo di Varzo Trasquera, al quale era iscritto.

    Gli anni in Val Divedro passano: quaranta, cinquanta. Sessanta, e gli acciacchi iniziano a farsi sentire, insieme alla preoccupazione per un rene malato. I medici a Domodossola gli prospettano la possibilità di un trapianto e lo iscrivono nelle liste d’attesa. È il suo turno, ma Walter è risoluto e ripete ai medici: “Non ho moglie né figli, è meglio che il rene sia donato a chi ne ha più bisogno di me”. Così è stato. Walter ha affrontato serenamente la morte, un altro al suo posto ha ritrovato la vita.

    Il frutto di Walter

    La solidarietà alpina, quella realizzata indossando il nostro amato cappello, è altruismo del fare, sacrificio operoso, alacrità proiettata verso gli altri e la comunità nella quale si vive. Potremmo anche chiamarla altruismo contagioso che in un gruppo ha l’effetto positivo di moltiplicarsi e rafforzare le relazioni sociali.

    È un dono prezioso, a cui noi alpini siamo abituati, ma non è l’unico sull’albero della solidarietà. Lassù talvolta matura un raro frutto, alimentato da un altruismo che affonda le sue radici nell’essenza della virtù che non è null’altro se non il fare del bene al prossimo. In tempi come questi, effimeri, frenetici, siamo abituati come esperti teatranti a nascondere l’individualismo sotto la maschera della libertà. E la società ci inganna con modelli culturali ormai alla deriva, in cui si fatica a produrre dei valori.

    Agli “uomini lupo” di questo secolo occorre capire dove trovare e come costruire il buono, il giusto e il vero. Per l’altro e per noi. Ed ecco che la scelta, il dono di un uomo solitario ma non solo, legato alla semplicità e insieme all’essenzialità di un’esistenza vissuta in montagna ci fa riscoprire più umani e più veri. La forza di fare un passo indietro, la forza di ascoltare, la forza di amare. Questo è il frutto di Walter.

    Matteo Martin