Sold out, tutto esaurito. Di solito queste cose succedono ai concerti dei grandi artisti. Da noi alpini può succedere anche alla Messa dell’Adunata. Così è successo a Milano. La coda era iniziata due ore prima per accaparrarsi un posto. E ci avevano visto giusto i primi arrivati, visto che non tutti sono potuti entrare quando le porte si sono chiuse per dare il via al rito. Dentro, come nelle grandi occasioni, la cattedrale di Milano raccontava uno dei suoi momenti migliori. Stipato ogni angolo, nel consueto caleidoscopio di gagliardetti a dare colore all’austera bellezza del Duomo della Madonnina. Una cattedrale così piena di fedeli, che sarebbe il sogno di ogni vescovo il poterla avere abitualmente così. Sull’altare 25 preti e tre vescovi: monsignor Santo Marcianò, Ordinario militare d’Italia, monsignor Franco Agnesi, Vicario generale della diocesi ambrosiana. Un pastore con il cuore alpino incartato di umiltà. Infine monsignor Damiano Guzzetti, alpino doc, e ora vescovo in Uganda. Ad aprire la liturgia il vescovo titolare di Milano, monsignor Mario Delpini, che viene a portare il saluto. Amabilmente dedica agli alpini una composizione che definisce poetica, con evidente autoironia e che spiega ai presenti: «L’impresa produce l’intesa. Lo spirito di Corpo, il desiderio di incontrarsi, la lieta partecipazione non sono frutto di simpatia o di interessi, ma della condivisione degli ideali, della difesa di valori. Perciò, l’invito è di intensificare le forme di condivisione in vista dello scopo comune: essere utili alla comunità, essere pronti per l’emergenza, essere generosi nel soccorso», dice il vescovo Mario, indicando anche, in modo simbolico, che «la cima chiede disciplina» e che non si deve sottovalutare «l’importanza dell’allenamento, dell’equipaggiamento, dell’organizzazione del gruppo». E, poi, l’onore «di essere convocati»: «gli alpini non sentono la convocazione per una impresa o la chiamata per una emergenza come un disturbo, ma sono pronti a farsi avanti, si sentono onorati di essere utili, fieri di essere apprezzati». Davanti all’altare la reliquia del Beato Carlo Gnocchi è lì a raccontare un amore reciproco da lunga data. Quello dell’uomo di Dio per gli alpini e quello ricambiato da parte di questi ultimi. Monsignor Marcianò come al solito detta un’omelia piana di cuore. Si sente che vuole bene agli alpini, che se solo potesse… E infatti di lì a poco arriva il loro regalo: un cappello da generale che, per un momento rimpiazza la mitra. Gli sta proprio bene, anche se lui deve essere il vescovo di tutti. Ma se solo potesse… Il rito scorre, scandito dalle note del coro Ana di Milano, diretto magistralmente da Marchesotti, fino alla Preghiera dell’Alpino al termine della cerimonia. A proclamarla è Luigi Boffi, Presidente della Sezione milanese. Sull’ambone gli fanno trovare una copia della preghiera, arbitrariamente composta da qualche cerimoniere pacifista, che sa di tutto tranne che di alpino. Avanza il buon Luigi, ma si capisce che si sente prigioniero di una trappola buonista ed è allora che riprende, nel tono e nelle parole il solco dell’ortodossia: “Rendi forti le nostre armi…”. Il tono della voce si impenna e si fa imperioso ed è la rivincita morale sull’abuso tentato e un servizio all’autenticità della nostra preghiera. Forse anche la Madonnina ha sorriso, strizzando gli occhi agli alpini. Lei conosce molto bene ciò che c’è nell’uomo e sa distinguere perfettamente ciò che vogliono dire le parole, da quanto appartiene alla forma degli esperti del rito.
Bruno Fasani