Sulle piste afgane, con gli alpini

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    Cielo azzurro, montagne brulle e villaggi di fango e paglia che si mimetizzano con l’ambiente circostante. Oggi, nell’anno 1391 del calendario persiano, l’Afghanistan cerca a fatica di uscire dal suo medioevo, formato da feudi in cui i capi tribù hanno diritto di vita e di morte e un potere su ogni cosa, contrastato a fatica e a corrente alternata dal governo centrale della Repubblica islamica e dalle sue leggi. Da un decennio le forze multinazionali di Isaf, con l’Italia in prima linea, sono impegnate a contrastare gli insorti, appartenenti a organizzazioni militarizzate della criminalità o del fondamentalismo che lottano per evitare qualsiasi progresso sociale, tecnologico o economico. Perché progresso significa perdere il controllo del potere e dei propri traffici.

    Secoli fa la “Via della Seta” conduceva i nostri mercanti in Oriente, ora, in uno scambio perverso, sulla “Via dell’oppio” vengono trasportati gli stupefacenti a occidente, attraverso l’Iran, la Russia e la Turchia che è il ponte ideale verso il Vecchio Continente. L’Afghanistan è il primo produttore al mondo di oppio a scopo non farmaceutico, un’attività che è considerata legale nel Paese e che può essere contrastata unicamente quando essa si evolve in semilavorazione del prodotto, come purtroppo accade sempre più di frequente, perché in tal modo aumenta il ricavo.

    L’oppio è la sopravvivenza per molti contadini mezzadri afgani che lo coltivano, ed è fonte di guadagni enormi per i pochi possidenti che controllano, servendosi di bande armate, vasti territori da lontano, da Farah, Delaram, Nimruz. E a poco sono serviti i tentativi di convertire alcune colture allo zafferano che ha ricavi più alti ma che esige maggiori cure e più tempo per l’estrazione. Per il contadino che deve sostentarsi è insomma meglio un raccolto sicuro e meno redditizio dopo un anno, che un maggiore guadagno con il rischio di perdere tutto dopo tre.

    TRANSIZIONE A BAKWA – In questo instabile contesto gli alpini della brigata Taurinense operano dallo scorso settembre per garantire il controllo del territorio, affiancati dai soldati dell’esercito afgano, l’Afghan National Army, che seguono un rigido programma di addestramento in vista del definitivo disimpegno delle forze multinazionali previsto per il 2014. La cosiddetta transizione avviene in modo graduale nei distretti del Paese, sulla base dei progressi del sistema giudiziario, della sicurezza, della governance e dello sviluppo in generale. Per i militari italiani la partnership con le forze di sicurezza afgane si sviluppa quindi con un cambio progressivo di ruolo: da missione attiva diventa sempre più di sostegno alle istituzioni locali che dovranno garantire la sovranità.

    La transizione, già compiuta la scorsa estate nelle zone del Gulistan e Bala Murghab, è stata perfezionata anche a Bakwa dove fino a metà dicembre ha operato la task force italiana comandata dal colonnello Cristiano Chiti e costituita dal 2° reggimento Alpini di Cuneo con gli specialisti del 32° Genio guastatori di Torino e del 232° Trasmissioni di Avellino. Un territorio di 34mila chilometri quadrati di notevole importanza strategica perché situato tra la provincia meridionale dell’Helmand e quella di Farah, a cavallo tra importanti vie di comunicazione, con poca popolazione stanziale, la maggior parte dedita alla coltivazione dell’oppio. Una zona pericolosa dove a fine ottobre è stato ucciso il caporale Tiziano Chierotti e sono stati feriti altri suoi quattro compagni.

    Per quattro mesi la piccola e rustica base avanzata “Lavaredo”, nello sperduto villaggio disabitato di Sultan e-Bakwa, è stata chiamata casa da quattrocento tra uomini e donne della task force, la metà dei quali costituivano la componente operativa, con compiti di controllo delle vie di comunicazione, per garantire la libertà di movimento e di difesa della FOB (acronimo inglese di Forward Operating Base, a indicare le basi operative avanzate), grazie al mantenimento di una zona di sicurezza, ampia fino a 14 chilometri, attorno ad essa. “L’impegno – spiega il col. Chiti – è stato anche quello di instaurare un dialogo con i capi villaggio per assecondare le richieste della popolazione: procurare tappeti e gruppi elettrogeni per le moschee, costruire pozzi per favorire l’abluzione rituale nei luoghi di culto e per le necessità quotidiane, oltre al supporto dell’attività di cooperazione civile e militare”. Senza dimenticare il lavoro a fianco della polizia e dell’esercito afgano che mira al rafforzamento della forza decisionale di queste istituzioni che ora sono da sole a controllare il territorio e la base operativa avanzata “Lavaredo”.

    LA FOB DI SHINDAND – Elmetto e giubbotto antiproiettile, un veloce briefing sulla pista di decollo della base di Herat ed entriamo nella fusoliera del Chinook, uno dei più grandi elicotteri da trasporto. Con il presidente Corrado Perona, ci sono Federico Di Marzo, delegato dell’ANA a Roma, i consiglieri Giovanni Greco, Cesare Lavizzari e Angelo Pandolfo, nonché il webmaster di https://www.ana.it Michele Tresoldi. L’equipaggio è formato dai piloti, da due serventi alle mitragliatrici appena dietro la cabina di pilotaggio e uno in coda. A farci da scorta un elicottero d’attacco Mangusta che, come una ronzante libellula, appare e scompare alla vista. Dopo tre quarti d’ora di volo tra spoglie vette e altipiani che si perdono all’orizzonte si raggiunge l’immensa base statunitense di Shindand, 70 chilometri di perimetro e una quantità di mezzi e di risorse senza pari. Inglobata all’interno della base c’è la piccola FOB italiana “La Marmora” dove sono di stanza gli alpini del 3° reggimento, comandato dal colonnello Andrea Bertocchi.

    A darci il benvenuto e a scortarci dall’eliporto alla FOB è il comandante del btg. “Susa” ten. col. Ruggero Cucchini con i fucilieri dell’82° reggimento “Torino”. La parte più protetta della base è quella del comando, nei cui uffici ricavati in tende o shelter, è custodita la teca con la gloriosa bandiera del reggimento. “Questo Tricolore ci ricorda chi eravamo e chi siamo e come tutte le bandiere di guerra – sottolinea con orgoglio il col. Bertocchi – segue ogni passo del reggimento e sarà ripiegata solo quando ce ne andremo, a lavoro finito”.

    In una parte della base si è già iniziato a costruire i più funzionali fabbricati in cemento, che rimarranno a disposizione dell’esercito afgano quando si perfezionerà l’avvicendamento. Tra gli edifici incompiuti, al centro del cantiere, in quella che sarà la piazza d’armi, c’è un piccolo e curato altarino dove svetta il Tricolore e vicino alle targhe con i nomi dei ragazzi Caduti in missione vengono posati ogni giorno fiori freschi.

    TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELL’UOMO – Una lunga colonna di mezzi è pronta per il pattugliamento nella zona di Shindand. Saliamo su di un blindato “Freccia”, un concentrato di tecnologia e duttilità, ideale per il trasporto delle truppe. Al suo interno otto posti e un schermo che permette agli occupanti di vedere non solo la mappa del terreno con la dislocazione di tutti i mezzi impiegati, ma anche di capire cosa accade all’esterno e in caso di necessità intervenire prontamente. L’attività di ricognizione è facilitata anche dall’utilizzo di altri tipi di tecnologia, come i “Raven”, dei piccoli aeroplani drone facilmente trasportabili e dotati di telecamera, oppure grazie all’ultimo arrivato, uno scanner ad ultrasuoni che capta anche quello che si trova dietro ad un muro.

    Tante tecnologie che riportano però al centro l’uomo, perché sarebbero nulle senza il personale ben addestrato che le sappia utilizzare. Nella colonna in pattuglia ci sono altri mezzi giganteschi chiamati generalmente MRAP, ovvero “resistenti alle mine e protetti dalle imboscate”, che poi è il compito principale che sono chiamati a svolgere poiché sono blindati e molto alti, in modo da essere più distanti dall’esplosione di un ordigno piazzato nel terreno. Sono assai sofisticati e vengono utilizzati con diversi allestimenti: alcuni montano telecamere a infrarossi, altri hanno braccia estensibili per rimuove eventuali mezzi danneggiati, altri ancora montano nella parte anteriore dei rulli che premono il terreno innescando gli ordigni esplosivi improvvisati (chiamati IED), uno dei maggiori rischi se si conta che nei tre mesi precedenti ne sono stati bonificati circa cento nella sola zona di Shindand.

    LOTTA AGLI IED – L’enorme differenza tra armamenti e addestramento tra i nostri militari e gli insorti induce questi ultimi a scegliere le imboscate e il piazzamento di ordigni lungo le strade, invece di un attacco diretto. Tra i compiti del 32° reggimento Genio guastatori alpini di Torino, comandato dal colonnello Ovidio Esposito, c’è anche quello di individuare e disinnescare i pericolosi IED. Le Compagnie del Genio sono composte da uomini addestrati per bonificare ordigni improvvisati o convenzionali, anche con l’ausilio di robot comandati a distanza o di gruppi cinofili con gli animali che aiutano a scovare l’esplosivo. I genieri anticipano le pattuglie che si muovono lungo le strade, un impegno faticoso non solo per la quantità di chilometri coperti che sono in media in 25mila al mese, ma soprattutto per la tensione emotiva che si accumula perché il rischio durante le operazioni non è solo per se stessi ma anche per i compagni al seguito.

    “Cerchiamo sempre di evitare di esporre al rischio diretto l’uomo – spiega il col. Esposito – però non è sempre possibile perché l’avversario studia il nostro modo di operare e affina il metodo di confezionamento e di posizionamento dell’ordigno che è spesso creato utilizzando materiale artigianale, ma per questo non meno pericoloso. A volte infatti la carica primaria è ben visibile ma collegata ad essa ce n’è una seconda che viene innescata nel momento in cui si sta operando sulla prima”. Normalmente l’ordigno viene fatto brillare inducendo un’esplosione, ma poi dev’essere fatto un controllo per vedere se è tutto a posto e questo è eseguito da un geniere. Gli avversari non sono degli sprovveduti. Esiste una vera e propria rete che studia come, chi e quando bisogna colpire. Il compito del Genio è anche quello di modificare e migliorare le procedure in modo da anticiparli e contrastarli meglio.

    RADIO BAYAN – Spesso si teme ciò che non si conosce. Ecco perché una voce che dà informazioni vere, ufficiali e verificabili è fondamentale in un contesto in cui il rapporto con la popolazione è cruciale, non solo per far sposare la propria tesi, ma soprattutto per far innescare quella circolazione delle idee a supporto del processo democratico. Per i compiti cosiddetti di “Psyops” (o Psychological operations) il 28° reggimento “Pavia” utilizza mezzi diversificati per divulgare i messaggi: volantini lanciati da aerei nelle zone più remote, audio, video e il contatto diretto con la popolazione, che è il più appagante a livello umano ma anche il più complesso perché in Afghanistan la difficoltà è acuita dall’alto tasso di analfabetismo e dal fatto che accanto alle lingue ufficiali, il dari e il pashto, si parlano decine di idiomi diversi, molti dei quali di origine turca.

    Per “rompere il ghiaccio” con la popolazione vengono spesso regalati oggetti che possano essere apprezzati e siano utili. Palloni, matite e pennarelli per i più piccoli; stivali, termos, coperte. E l’oggetto più gettonato, una radio a dinamo solare con la quale si può ascoltare anche “Radio Bayan West” che da Herat trasmette in tutta la provincia sulla frequenza 88.5 FM. “La radio, nata nell’aprile 2012 – racconta il suo direttore capitano Alessandro Faraò – ha raggiunto in pochi anni i 100mila ascoltatori, propone il 60% di musica orientale ed è la terza emittente più ascoltata di Herat”. Trasmette il lingua dari e si avvale in redazione di cinque giornalisti afgani che curano programmi differenziati a seconda delle persone e della zona, perché diverso è il grado di istruzione della gente, soprattutto tra coloro che vivono in città o nelle campagne. L’attività del 28° rgt. Pavia non è rivolta solo alla popolazione locale, ma mira a creare un ponte tra culture così diverse, fornendo agli uomini della Taurinense i metodi più opportuni con cui approcciarsi e parlare alla popolazione, partendo dalla considerazione che, in fondo, siamo degli ospiti nel loro Paese.

    “Il problema molte volte è dovuto all’incomprensione – spiega il cap. Faraò. Un gesto o una parola che noi occidentali facciamo rientrare nella normalità, qui può essere interpretata in modo differente”. Un esempio su tutti è quello avvenuto tempo fa nei pressi di Bakwa, dove i mezzi di passaggio erano costantemente bersagliati dai sassi scagliati dai alcuni bambini. Dopo una settimana vennero divulgati dei volantini rivolti ai padri in cui c’era scritto che i soldati erano lì per aiutarli e non per minacciarli, e suggeriva il modo in cui i figli avrebbero dovuto comportarsi. La situazione cambiò improvvisamente e i sassi si trasformarono in tante mani aperte in segno di saluto.

    Matteo Martin