Non si può dire che nel mese di gennaio e anche febbraio di ogni anno manchino, per iniziativa della famiglia alpina, le commemorazioni del dramma vissuto dall’Armata Italiana in Russia nell’inverno 1942 43 e in particolare della battaglia di Nikolajewka. Saranno state le testimonianze di Rigoni Stern, di Bedeschi, di Corradi e di tanti altri scrittori che hanno vissuto in prima persona quell’esperienza, sarà l’impatto emotivo suscitato dalla scomparsa nel nulla, in poche settimane, di oltre ottantamila giovani, certo è che nessuna tragedia delle guerre combattute dal Regio Esercito ha lasciato segni così profondi e duraturi nell’immaginario collettivo degli alpini.
Perché stupirsi allora se anche l’Abruzzo, da una decina d’anni, propone una grande manifestazione all’Isola del Gran Sasso, con la presenza, sia pur ogni cinque anni, del Labaro dell’ANA, del presidente nazionale e buona parte del consiglio direttivo? La risposta sta sicuramente nell’attivismo di un capogruppo particolarmente capace e dei suoi collaboratori, ma non basta. Per capire come decine di migliaia di persone si concentrino, l’ultima domenica di febbraio, in una graziosa cittadina di cinquemila abitanti, bisogna entrare nelle pieghe dell’anima degli abruzzesi.
Ritengo non sia esagerato affermare che dopo la religiosità, di cui è esempio l’enorme chiesa dedicata a San Gabriele dell’Addolorata, dopo l’attaccamento alla terra e alle sue tradizioni, ci sia il culto del cappello alpino e la memoria del battaglione L’Aquila. A Selenyj Jar, un insignificante quadrivio dell’immensa steppa russa, si consumò l’atto finale di quel reparto costituito quasi esclusivamente dai tenaci figli della terra d’Abruzzo. Erano circa 1.600 e a sacrificio consumato, in una battaglia di sopravvivenza senza speranza, il sottotenente Prisco, che con loro condivise eroismi e tragedie, scrisse: Uscimmo dalla sacca in 163 alpini e tre ufficiali, tutto ciò che de L’Aquila sopravvisse. Oltre l’onore, s’intende, e l’esempio che ha un suo peso, poiché arricchisce per sempre la storia di un intero popolo .
LA CRONACA
Il tempo incerto lascia appena intravedere, ad intervalli, la maestosa bellezza dell’arco montano da cui svetta il Gran Sasso d’Italia. La valle Siciliana, ampia e dolce, crea, alla confluenza del Mavone e Ruzzo, un’isola dove nel Medioevo i Conti Marsi iniziarono il loro dominio su quei territori, costruendovi il primo nucleo fortificato che oggi è l’Isola del Gran Sasso. Un suggestivo borgo di cinquemila anime che per due giorni, il 24 25 febbraio, imbandierato e festante riesce a catalizzare l’universo alpino abruzzese e non solo.
Nel pomeriggio di sabato 24 il Labaro dell’ANA, scortato dal presidente nazionale Corrado Perona, dai vice presidenti Gentili e Martini, dai consiglieri Nebiolo, Casini, Lavizzari, Gazzola, Capannolo, Munarini e Bertino, il sindaco Fioravante di Giacinto assieme ad autorità civili e militari, con la fanfara della Taurinense in testa, hanno reso gli onori al monumento all’Alpino e a quello dei Caduti con una corona di alloro e silenzio d’ordinanza. Successivamente al Palaisola, una grande struttura moderna, Vittorio Mucci apre il convegno: Giuseppe Prisco: l’uomo, l’alpino , con interventi di Maurilio Di Giangregorio, del gen. D. Corinto Zocchi, autore del libro Il battaglione L’Aquila , del presidente nazionale Corrado Perona, di Cesare Lavizzari, dei reduci di Russia Carlo Vicentini, e Ivo Emett e di Luigi Prisco, figlio di Peppino.
Gli interventi, intervallati da canti alpini eseguiti dal Coro Stella del Gran Sasso, sono stati particolarmente interessanti perché su tutto aleggiava la memoria della tragica vicenda di Selenyj Jar, raccontata dai protagonisti, con la lucidità di chi si porta da una vita un fardello di sofferenze e di morte che nulla e nessuno può cancellare. La figura di Prisco, ormai abruzzese di adozione e presto cittadino onorario di Isola del Gran Sasso, alla memoria, è emersa, nella sua passionale generosità di uomo e di soldato, più viva che mai attraverso il racconto dei reduci.
Questo giovane sottotenente, coccolato dal padre nelle tenerissime lettere che quasi quotidianamente gli scriveva, viveva il suo dramma esistenziale travolto dal gelo, dalla tormenta, dagli attacchi dei russi, da un caos indescrivibile di uomini, di mezzi, di quadrupedi, di slitte cariche di munizioni, di feriti e di moribondi. Tutto questo sembrava rivivere ancora una volta negli occhi lucidi dei superstiti presenti: Carrozzi, che ha buttato sopra un mulo l’ufficiale stremato, Chiarilli, Corti, Di Franco, Falzitti, Nori, Rolandi, Sassetti.
Emett si è lasciato trasportare in una lunga, quasi inarrestabile rievocazione di quei giorni e Vicentini, preciso, documentato, quasi col distacco dello storico, ha lasciato appena trasparire sdegno e commozione nel tracciare una sintesi delle giornate cruente ed eroiche del Cervino, da metà dicembre fino all’epilogo nell’ultima decade di gennaio. La mattina del 25 il sindaco ha fatto gli onori di casa nella sede municipale, accogliendo le autorità, dal presidente Perona ai consiglieri nazionali, al presidente della della sezione Abruzzi gen. Antonio Purificati, al vice presidente del Consiglio regionale Nicola Disegna, al presidente della Provincia di Teramo Ernino D’Agostino e del Consiglio provinciale Ugo Nori, oltre ad una quindicina di sindaci e agli addetti militari dell’Albania, Federazione Russa, Repubblica Ceca, Repubblica Federale di Germania, Romania, Slovacchia, Slovenia, Stati Uniti d’America, Ucraina.
La fanfara della Taurinense intanto scaldava i fiati al comando, presente il col. Michele Pellegrino, comandante del 9º Reggimento alpini. La sfilata per le vie della città con meta il santuario di San Gabriele dell’Addolorata è stata uno spettacolo veramente unico per partecipazione, compostezza e calore. Oltre venti vessilli di sezione provenienti da tutta Italia, 160 gagliardetti di gruppo, fanfare, e un’interminabile scia di alpini inquadrati per sei hanno sfilato davanti al Labaro nazionale tra due ali di folla entusiasta, incredibilmente festosa, e si sono posizionati nel grande piazzale del Santuario per le allocuzioni delle autorità. A conclusione è intervenuto Corrado Perona che, sull’entusiasmo del ricordo dei vent’anni, quando unico piemontese prestò servizio a Tarvisio nel battaglione l’Aquila, ha ricordato il significato di quella cerimonia in memoria dei Caduti di Selenyj Jar e il valore del soldato abruzzese.
Restate così come siete ha concluso cocciuti e duri come la vostra terra. E va bene così . Nell’enorme santuario si erano nel frattempo ammassate migliaia di persone e il vescovo di Teramo e Atro, mons. Michele Secchia, prima d’iniziare il rito religioso, con un gesto di grande sensibilità, ha invitato gli alpini a tenere il cappello in testa. Un gesto apprezzato, come l’omelia di alto profilo spirituale e di grande sensibilità per i sacrifici e la generosità degli Alpini. A cerimonia finita, quando la folla cominciò a disperdersi, sui volti del capogruppo Giulio Ciarelli, del presidente Antonio Purificati e del consigliere nazionale Ornello Capannolo comparve finalmente un soddisfatto sorriso.
(v.b.)