Alcuni anziani di Erto e Casso sostenevano che nella conca del Vajont non doveva essere costruita una diga. Raccontavano che lassù, quando infuriavano i temporali estivi, ai colpi secchi dei fulmini l’eco non rispondeva con pari intensità, ma semplicemente con un “toch” smorzato. Ciò significava che dietro il pendio in vista c’era una faglia, una frattura tra gli strati rocciosi, e parte della montagna era destinata a franare. Non a caso, i loro antenati, quel monte l’avevano chiamato Toc. Quello che loro paventavano successe la notte del 9 ottobre 1963, 56 anni fa. La frana che precipitò nel bacino sottostante aveva dimensioni gigantesche: un fronte superiore ai due chilometri e una profondità di circa 400 metri con un volume di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti. La forza d’urto della massa piombata nella diga generò un turbine d’aria che toglieva il respiro e fece schizzare verso il cielo enormi getti d’acqua; il più potente al termine della traiettoria atterrò e esplose nel centro di Longarone, uccidendo e smembrando uomini ed animali, distruggendo e sbriciolando case e manufatti; infine defluì verso il Piave stendendo un sudario di fango su quell’immane ecatombe. Dopo le prime ore dell’accaduto, ci fu subito la mobilitazione che richiamò sul luogo migliaia di soccorritori, tra loro anche gli alpini. Tra i primi soccorritori c’è stato anche l’alpino Italo di Germagnano (Torino), Valli di Lanzo. Dopo il Car a Montorio Veronese aveva partecipato al corso di radiotelegrafista a San Giorgio Cremano (Napoli), arrivato alla Compagnia Genio Pionieri – caserma Fantuzzi di Belluno – e poi destinato alla funzione di furiere.
Italo racconta…
Nella notte del 9 ottobre 1963, verso le 22.30, suonò l’allarme. Subito pensai fosse un’esercitazione notturna e – noi furieri dormivamo in camera con i graduati e normalmente non partecipavamo alle esercitazioni – non mi alzai, ma il capitano Zuanetti intervenne e ordinò di partecipare tutti perché era successa una cosa gravissima. Subito pensai a qualche attentato ai tralicci – allora c’era tensione con qualche gruppo altoatesino – e a Belluno si era sentito un boato. Saliti sui camion fummo avvisati che si andava a Longarone perché era crollata la diga del Vajont.
Italo, dopo una giornata passata tra le macerie a recuperare corpi martoriati, appena rientrato in caserma scrisse alla sua cara Alby, allora fidanzata e oggi sua moglie.
Belluno, 10 ottobre 1963 – Carissima Alby, purtroppo il sogno di rivederti domenica è sfumato. Penso saprai della tremenda catastrofe che ha colpito alcuni paesi a 18-20 km da Belluno. Tutta la Brigata Cadore è impegnata per le opere di soccorso e quasi sicuramente per sabato non saranno concesse licenze. Anch’io dalle 24 ore di questa notte fino oggi a mezzogiorno ho preso parte all’opera di soccorso e confesso che è stata una cosa dolorosa, tremenda, una visione così pietrificante che mi auguro mai più di vedere ma che difficilmente si cancellerà dalla mia mente. Stanotte siamo stati svegliati a mezzanotte e dopo meno di mezzora già eravamo pronti per la partenza per il luogo del disastro. Una valanga enorme di acqua si era rovesciata con estrema violenza su Longarone, Faé, Codissago, Rivalta. Non una casa è rimasta in piedi e lassù dove sorgevano questi ridenti paesini del Cadore ora non è che distruzione, morte, disperazione. La morte ha sorpreso quasi tutti nel sonno e nel fango, tra l’immenso cumulo di macerie non meno di 2.500 sono i cadaveri. Quando verso l’una siamo giunti sul posto tutto era avvolto nell’oscurità e la debole luce della luna rendeva ancor più spettrale la desolazione del luogo. Cadaveri nudi giacevano ai lati della strada (fino dove esisteva) e lungo le sponde del Piave. Alla luce delle torce elettriche abbiamo iniziato a gruppi a scavare tra le macerie di Longarone. Col mio gruppo ho estratto un’intera famiglia, mamma, papà, una bimba e un bambino di 6-7 anni, il figlioletto respirava ancora debolmente ma è spirato tra le braccia di un medico subito accorso. Poi è giunta l’alba e al chiarore del giorno la catastrofe è apparsa in tutta la sua immane proporzione. Qua e là dal fango affiorava una mano, un piede, il viso di un cadavere. Un ragazzo di 15-16 anni seduto sul letto teneva tra le mani il libro di latino quando la morte lo ha colpito; una madre curva sui figlioletti copriva con un lenzuolo il loro viso; forse aveva compreso la catastrofe e col suo istinto materno aveva cercato di proteggere col suo corpo i figlioletti e di risparmiare loro la terrificante visione… Molti e molti altri episodi così disperati potrei elencare anche se sono rimasto sul luogo solo fino a mezzogiorno dopo di che sono ritornato in fureria. La tragedia ha però procurato vittime anche tra i miei commilitoni del 1º/’42. Due miei amici di guardia ad un ponte presso Longarone sono stati sorpresi dalla terribile ondata che li ha spazzati via nel fiore degli anni. Alle 21 uno mi aveva telefonato, è stata l’ultima volta che ho sentito la sua voce. Purtroppo domenica non sarò con te, il mio sogno di rivederti è ancora una volta svanito, ma accetto questo sacrificio con rassegnazione in omaggio ai miei due amici così tragicamente caduti. Ti abbraccio forte forte e ti bacio, Italo.
Altri alpini e soccorritori si fermarono per diverse settimane, accampati in tende, divisi in squadre. Scaricati dai camion provenienti dalle caserme, furono messi a scavare nel fango, dove l’odore prevalente era quello della morte, a recuperare corpi martoriati e smembrati, un orrore. Scavarono con pochi attrezzi, alcune volte con le mani, ma dalla melma uscivano solo cadaveri che venivano allineati dove prima sorgevano le case. Quelli che erano soldati di leva nel 1963 hanno ancora impresso nella mente ciò che hanno vissuto a Longarone. Come dimenticare quei morti e i singulti dei superstiti, pianti trattenuti che rendevano ancor più gelida quell’atmosfera spettrale. Nel museo di Longarone pendono dal soffitto 1910 lamelle grigie, elementi verticali ritorti, tante quanti sono stati i morti accertati. All’uscita vi sono altre 31 lamelle bianche, una per ogni bambino mai nato, frutto del grembo di altrettante donne scomparse. Fuori ci sono altre lamelle attorcigliate a rappresentare i superstiti, morti dentro. Nel cimitero monumentale delle vittime 703 tombe hanno un nome, 761 solo un numero (corpi irriconoscibili) e 446 cippi virtuali, perché di questi morti la catastrofe portò via anche i loro corpi.
a cura di Luigi Furia