Scritti… con la divisa

    0
    78

    Dopo due accelerate, sembra proprio che il motore stia per partire. Il primo a mandare un messaggio è Gianfranco di Bologna, iscritto però al Gruppo di Zocca (Modena) – Car a Montorio Veronese nel 1959 e poi al 7º Alpini di stanza a Belluno – che scrive: «Sono sincero, ho pianto il giorno dell’arruolamento, ma ho pianto maggiormente nel salutare i commilitoni il giorno del congedo».

     

    Aggiunge «di lettere ne ho scritte e ricevute tante» ma, si rammarica, «non le trovo più». Lo segue Carlo di Asti – 31º Corso Auc Lecce, Smalp Aosta e 11º Alpini Arresto a Brunico; anni 1963/1964 – che ha sottomano le lettere materne di cui cita solo alcune frasi. Ha pure i nonni che lo ricordano, come gli scrive la mamma: «Anche quando siamo a tavola con i nonni immagino che tu sieda accanto a loro. Il nonno si fa forza, ma si vede che anche lui soffre la tua mancanza». E l’anziana nonna gli raccomanda: «Cerca di comportarti bene, perché solo così il tempo trascorrerà più in fretta». Mentre il papà, molto meno emotivo essendo stato a suo tempo capitano di complemento nella Julia, nelle lettere dà consigli specifici e mirati. Il più allineato, per dirla in gergo militare, ligio a quanto raccomandato, è Luigino di San Fior (Treviso). Ci manda un bel plico con un foglio di spiegazioni battuto a macchina, come aveva imparato durante la naja, e la fotocopia di alcune lettere. Partito il 6 ottobre 1968 per L’Aquila, destinazione Bar della Julia dove avviene la “vestizione”, è poi trasferito alla caserma di Teramo per l’addestramento. Da laggiù scrive una lettera ai suoi “carissimi genitori, sorelle e zii”.

    Luigi Furia
    luifuria@gmail.com


    Teramo, 23 ottobre 1968 – «Cara mamma ogni tanto io cerco di immaginarmi cosa stai facendo a casa. Domenica per esempio (svegliandomi presto) pensavo, a quest’ora mia mamma starà andando a Messa su a Castello (Castello Roganzuolo, frazione di San Fior, ndr). E così penso sempre anche a mio papà, alle mie sorelle e a mio zio Rico e zia Bepa. Cara mamma questa naja mi fa anche bene, perché quando ero a casa non sapevo cosa vuol dire essere liberi, fare ciò che si vuole, tornare a casa la sera e trovare i propri cari (…)». Poi scrive di problemi pratici e contingenti. «I pantaloni della naja sono piuttosto grandi, ma mi consolo perché anche gli altri li hanno piuttosto grandi. Fino ad ora mi sono lavato un paio di calzette, due fazzoletti e due paia di mutande e una canottiera poi le ho distese sulla branda perché si asciugassero». Nella stessa lettera è poi il turno di papà. Scrive quello che probabilmente non gli aveva mai detto: «Carissimo papà ti penso sempre e dico devo darmi coraggio perché mio padre ha fatto 2+5 anni di naja e per di più c’era anche la guerra. Ora ti capisco perché parlavi spesso di guerra e ti ammiro. È vero, la naja bisogna farla per capirla. Ti ringrazio molto per i saluti che mi hai scritto».

    La mamma e le sorelle rispondono:

    Castello, 28 ottobre 1968 – «Non mi dici niente se hai bisogno di soldi, ti raccomando se ti occorre qualche cosa scrivi e cerca di star sempre contento e di far tutto volentieri così vedrai che i giorni ti passeranno in fretta. Tuo padre si dà tante arie perché gli hai detto che l’ammiri, non puoi immaginare, adesso quando si mette a parlare della naja non finisce più». Il padre è rimasto gratificato di quanto il figlio ha scritto ed ora, oltre a volersi bene, si apprezzano maggiormente: entrambi sono soldati. Anche le sorelle sono orgogliose del fratello alpino. Rita, la minore, disegna sulla lettera una cornice tutta elaborata come riquadro ai suoi “più cari saluti”; Maria Teresa, già signorina, si dilunga un po’ di più: «Approfitto oggi che è domenica per scriverti anch’io qualche riga. Sono contenta che ti trovi bene, ho visto la fotografia che ci hai mandato, sei riuscito molto bene (…). L’ho mostrata anche alle ragazze che vengono alla scuola di economia domestica e la maestra ha detto che sei un bel ragazzo. Se ne fai ancora, mandacele che ci farà molto piacere». Quel plurale può significare che a qualche sua amica piace quel “bell’alpino”.

    Luigino il 19 dicembre parte da Teramo per Pontebba (Udine), destinato al battaglione Gemona.

    Pontebba, 29 dicembre 1968 – «Quando il treno è passato vicino a casa ho messo fuori un fazzoletto bianco, spero che voi l’abbiate visto. Io vi ho visti tutti, da una parte c’era papà e zio Rico e dall’altra c’eri tu mamma con la Rita e la Maria che mi salutavate con grandi gesti di mano. Sono rimasto contentissimo di vedervi (…). Questa mattina ho saputo che il giorno 4 gennaio partirò per fare il corso di informatore a Udine (…). Spero proprio che sia vero (…), questa sera dovrò montare di guardia. È la prima volta (…). Spero che il tempo passi presto».

    Ancora adesso ricorda quella scena: «I miei erano tutti fuori a salutarmi». Schierati lungo la ferrovia ad agitare le braccia, mentre lui al finestrino sventolava un fazzoletto: gesti semplici che scaldano il cuore. I “miei” sono mamma, papà, le sorelle Rita e Maria Teresa, zio Rico e zia Bepa. E sì perché la sua era una famiglia allargata, come quelle d’una volta. Nella casa familiare, spesso con un po’ di campagna attorno, i fratelli e le sorelle che non si sposavano continuavano a vivere insieme al fratello che aveva formato famiglia, un modo per aiutarsi e sostenersi nelle difficoltà e nei bisogni, un amarsi veramente, anche se questo verbo era usato raramente tra loro per il riserbo insito nel cuore della gente umile, portata a comunicare più con gli sguardi che con le parole. Magari certe cose si scrivevano quando si era lontani.

    Appena giunto a Udine scrive alla famiglia:

    Udine, 5 gennaio 1969 – «Sono partito ieri sera da Pontebba (…) con la borsa valigia e con lo zaino di montagna pieni di roba, con il fucile, con la radio, con la bussola, ecc. ecc. (…). Questa mattina sono andato alla S. Messa e poi al pomeriggio sono uscito con Agostino in libera uscita, siano andati al cinema, di ritorno abbiamo fatto una visita al Santuario della Madonna della Grazie vicinissimo alla caserma (…). Qui purtroppo le camerate non sono riscaldate (…). Avete passato bene l’ultima sera dell’anno? Io l’ultima sera dell’anno sono rimasto in caserma perché ero di piantone e anche la sera di Capodanno ho dovuto rimanere perché ero di guardia».

    È naja, Luigino!