Scritti… con la divisa

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    SECONDA PARTE

    Dopo il siluramento del Galilea furono sospesi i rientri via mare e il reparto di Marchetti ad aprile, quando fu ammassato su un treno che risalì la Jugoslavia per giungere a Muggia, vicino a Trieste. Dopo una licenza di 40 giorni ritornò al reparto di stanza a Gorizia. Riprese la mansione di conducente muli. Un pomeriggio il maggiore radunò il battaglione e comunicò che si doveva partire per il fronte russo.

    Era il 15 agosto 1942, “giornata triste, malinconica, un’altra partenza senza speranza di ritorno”. Alla stazione di Gorizia li aspettava una lunga tradotta composta da un vagone comando, seguivano carrozze passeggeri oppure vagoni merci con portone scorrevole per la truppa. Gli ultimi due vagoni erano adibiti a cucina e cambusa. Le pentole per cucinare il rancio della truppa con il treno in movimento, avevano il coperchio costituito da una mezza sfera con un buco centrale di modo che lo scuotimento del vagone non facesse tracimare l’acqua.

    I fornelli erano con fuoco a legna, lignite o carbone. Il vagone cambusa comprendeva il serbatoio dell’acqua e viveri vari per circa venti giorni. Per lo scartamento diverso delle ferrovie in Russia, ad un certo punto dovevano caricare tutti i materiali su automezzi per giungere alle spalle delle Divisioni alpine, mentre la truppa procedeva a piedi: “Marcia dopo marcia abbiamo raggiunto un paesino dove l’ospedale da campo si fermò mentre le truppe di combattimento si portarono al fronte sulla riva del Don”. Gli alpini addetti all’ospedale si misero a scavare dei bunker. In dotazione avevano delle slitte ambulanze, trainate da muli. Finiti i lavori, arrivò l’ordine che la Julia doveva spostarsi di circa 40 km a sud per prendere le posizioni tenute fino allora dalla divisione Cosseria.

    Non c’erano bunker ed il termometro andava dai 25 ai 30 gradi sottozero. Un giorno gli alpini videro alcuni reparti tedeschi ritirarsi, senza sapere il perché. Era l’inizio di un’immane tragedia, la ritirata. Il 15 gennaio 1943 arrivò l’ordine alla Julia di lasciare il fronte. Partirono il 17 gennaio quando il termometro segnava 47° sotto zero: “Non si sapeva da che parte andare: eravamo completamente circondati dai russi, si andava all’assalto, a volte si riusciva ad aprire un varco, a volte no e allora si tentava da un altro lato, e tutto questo si è ripetuto per undici volte. Appena si trovava una via di uscita, ci si metteva in viaggio e lì si calpestavano morti e feriti.

    Questi ultimi chiedevano aiuto, facevano pena ma non potevamo soccorrerli in nessuna maniera”. I carri armati si avventavano contro i soldati che si stavano ritirando, mitragliandoli e schiacciandoli sotto i cingoli. “Dopo sei giorni che si camminava senza sosta ci siamo fermati in un paese in attesa di riprendere la marcia, restando lì fermo in piedi mi sono addormentato e quando son tornato in me del mio reparto non vidi più nessuno. Era notte, cosa fare? Seguii la pista con altri sbandati”. Giuseppe andò avanti smarrito, quando sentì una voce: “Dove vai, Marcàt?”. Un miracolo! Marcàt era il soprannome della sua famiglia e quella era la voce di suo fratello Mario. “Lui mi ha subito riconosciuto, ma io no, anche perché era vestito con una tuta bianca da sciatore e con due baffi di ghiaccio attaccati al passamontagna.

    Così siamo partiti assieme”. Un giorno spuntarono dei carri armati russi, sparando all’impazzata e schiacciando sotto i cingoli uomini e muli. Giuseppe vide un suo amico, Bonelli, e gridò: “Pinotu, vieni che andiamo a cercare riparo”. E questi gli rispose: “Non posso abbandonare la slitta, è carica di feriti”. Non seppe poi cosa gli fosse successo, poiché quella fu l’ultima volta che lo vide, era il 23 gennaio 1943. Si era immolato per non abbandonare i suoi commilitoni feriti, un vero eroe senza medaglie. Dopo l’ennesima furiosa battaglia, Giuseppe e Mario si trovarono incolonnati dietro reparti tedeschi. Così giunsero vicino a Nikolajewka, dove si fermarono per riposare. La sera del 24 gennaio i superstiti si ripararono in alcune isbe, il termometro segnava 38/40 gradi sottozero. Durante la notte si trovarono circondati da soldati russi e dovettero arrendersi. Furono separati, italiani da una parte e tedeschi dall’altra.

    Gli “italianski carasciò” furono inquadrati ed ebbero l’ordine: “Avanti marsch”. Dopo un centinaio di metri sentirono il crepitare dei mitra, colpi destinati ai tedeschi. Gli italiani, terrorizzati, furono fatti proseguire fino a Nikolajewka, dove vennero rinchiusi in un grande fabbricato diroccato. Qui passarono due giorni, il 25 e 26 gennaio, digiuni e tormentati dal freddo. Ad una certa ora sentirono sparare all’impazzata. Pensa Ad un certo punto, nella confusione generale, Giuseppe non trovò più Mario, salito su una tradotta convinto che il fratello fosse già sul treno. Lo cercò per ore, poi, sfiduciato, riprese il cammino.

    “Quando vedevamo il fumo di un camino, andavamo a chiedere se ci davano qualcosa da mangiare. Però non avevano nient’altro che kartoffel, patate, ma erano brava gente, ci facevano entrare in casa, sedere vicino alla stufa e mentre noi ci scaldavamo ci facevamo cuocere le patate. Andò avanti così per almeno venti giorni ed infine siamo arrivati vicini a Gomel. Siamo rimasti lì fino al 6 marzo, finché sono arrivati tutti gli sbandati della Divisione”. Quella sera fecero salire i superstiti su di un treno in partenza per l’Italia. Era una tradotta composta da 29 vagoni e trasportò tutto il resto della Divisione: “Dopo cinque giorni siamo arrivati al Brennero e tra di noi si pensava al ricevimento che avremmo avuto. Dopo pochi km siamo giunti a Vipiteno, dove ad accoglierci c’erano sette od otto donne che ci hanno dato delle mele ed un po’ di vino dicendoci: ‘Avete fatto schifo!’.

    Questo fatto me le ricorderò per tutta la vita”. La tradotta fu subito spostata su di un binario morto e la zona circondata da filo spinato. Passarono la notte su carri bestiame e alle prime luci dell’alba vennero fatti scendere e portati a fare il bagno, tagliare barba e capelli, vestirsi di nuovo e partire per Laives, dove ci furono i discorsi ufficiali e una banda che li accompagnò nel paesino di Bronzolo, dove rimasero in contumacia per quindici giorni. Giuseppe ritornò a casa con una licenza di trenta giorni, giungendo ad Alba il 20 marzo 1943, accolto da tanta gente tra cui il fratello Mario di cui non sapeva più nulla da quando si erano separati a Sebekino in Russia. Quei giorni passarono in un baleno e il 21 aprile Marchetti si presentò, in ritardo, a Savigliano alla 2ª Compagnia di Sanità, per poi essere assegnato ad altro reparto alpino, dove trovò le reclute del 1923. Era ancora in divisa quando la radio, al mattino dell’8 settembre 1943, annunciò che l’Italia aveva firmato l’armistizio.

    I soldati festeggiarono ma due ore dopo il maggiore fece l’adunata e disse: “Voi fate festa che la guerra è finita, mi augurerei che lo fosse, ma per noi la guerra incomincia solo adesso”. Distribuirono bombe a mano, fucile mitragliatore e munizioni, perché si dovevano combattere i tedeschi. Giuseppe, valutato quanto stava succedendo, pensò: “Il maggiore mi ha detto che sono sospettato di diserzione e mi possono fucilare, tanto vale che diserti davvero, così a peggio andare mi fucileranno due volte”. Così scappò la sera stessa. Erano in tre, oltre lui un certo Vivalda di Albaretto Torre e Destefanis Sebastiano di Rodello. Trovarono gente di buon cuore che diede loro dei vestiti borghesi.

    Dopo altre avventurose vicende Marchetti giunse in treno a Santa Vittoria d’Alba e da lì a piedi fino a casa: “Così è finita la mia vita militare durata 43 mesi meno 2 giorni. Ritrovai un letto per dormire perché nei quasi 4 anni di militare non ho mai dormito in una branda, non ho mai visto un lenzuolo, posso dire anche solo paglia per dormirci sopra, e per tre quarti del mio servizio militare si dormiva vestiti e pieni di pidocchi”.

    a cura di Luigi Furia