Salvare la Patria in tempo di pace

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    Ho letto con attenzione l’editoriale di novembre 2012 dal titolo “Solo se liberi saremo anche profetici”. Le chiarissime, ferme, ma soprattutto forti e responsabili valutazioni del direttore sono tutte condivisibili, nessuna esclusa.

    L’argomento è tanto delicato da macchiare tutta la storia dell’ANA, in caso di errore o maldestra gestione della propria forza. Però, il citato editoriale, che abbraccio senza riserve, credo debba rinunciare a “chiudere” per viceversa “aprire” ad una meditazione diversa dalla sterile elencazione di indiscutibili princìpi ed onorevoli tradizioni.

    Un po’ come dire che se il blasone non imbandisce la mensa, di sola contemplazione si può anche morire. E mi riferisco all’antico ed ormai attualissimo imperativo “usque tandem…” o, se si preferisce, al se e quando riterremo che la famosa goccia avrà ormai fatto traboccare l’altrettanto famoso vaso. In tal caso come si comporterà l’ANA?

    Ma, soprattutto, si porrà l’ANA il problema delle proprie responsabilità di fronte all’ennesimo salvataggio della Patria o continuerà a lustrare i propri vessilli materiali e morali? E non cadrò qui nel “paradosso dell’asino”, meglio conosciuto come “l’asino di Buridano”, proposto dall’artigliere padano cui il direttore risponde. No, ricorderò piuttosto che la vergogna singola e collettiva sono antiche quanto la fame, ma mentre la fame degli affamati si sazia, quella dei professionisti della vergogna, no. Mai!

    Questo tipo di fame non ha oggi e non ha mai avuto in passato un solo colore, un solo partito, una sola bandiera, così come non avrà colore, partito, bandiera, l’eventuale meditazione e conseguente iniziativa che l’ANA dovesse intraprendere. E, naturalmente, solo quando si riterrà che la goccia stia per fare traboccare il vaso, non prima e secondo le varie e confrontate sensibilità. A me, che ho il privilegio di aver vissuto la rinascita postbellica sono bastati, ad esempio, i circa duemila morti di Longarone il 9 ottobre 1963.

    Esattamente 1.909 morti più uno: l’amico Alessandro De Zolt, già autista personale dell’allora colonnello Bruno Gallarotti, in seguito generale comandante il 4° Corpo d’Armata. Il Piave fu sconvolto, vilipeso, oltraggiato e punteggiato dai resti di 1910 morti, straziati dal più cinico politichese, così come documentato nel famoso monologo televisivo “Il racconto del Vajont” di Marco Paolini, grandissimo figlio di Belluno.

    È difficile costringere piazza e politica a tornare allo “spirito di servizio”. Difficile, quasi impossibile. Ma poche istituzioni, come l’ANA, ne hanno l’autorevolezza, l’occasione storica e, forse, il dovere. Coraggio, ANA, evitiamo altri Eroi!

    Gianluigi Corrias – Albenga (SV)

    C’è tanta sofferta passione civile in questa lettera che si interroga su cosa fare per evitare la deriva. I proclami non servono più, dice il nostro amico, e allora dove andare, dove parare? Personalmente, caro Gianluigi, sono convinto che l’educazione, compresa quella di un popolo, avviene solo attraverso la relazione umana.

    I proclami possono avere risonanza, ma non incidono nella vita reale. È partendo da questo principio che l’ottimismo può acquisire maggiore forza. Gli alpini non sono gli araldi dei proclami, ma i testimoni nei fatti e dei fatti. Certo, abbiamo bisogno di equilibrio, di cui c’è in giro una gran penuria. Ma è sulla nostra coerenza, sul rispetto delle regole che dobbiamo misurare il nostro impegno. Il resto dovrebbe venire come conseguenza.