Aspettando l’Adunata.
Il Risorgimento italiano che ha portato all’Unità d’Italia, per un paradosso della storia è iniziato dalla Restaurazione imposta dal Congresso di Vienna, svolto dall’ottobre del 1814 al giugno 1815. Fu convocato dalle potenze che avevano sconfitto Napoleone, Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia, per ripristinare l’assetto politico dopo lo sconvolgimento portato dall’imperatore francese. Vi parteciparono ben 216 delegazioni di tutta Europa tra le quali fu ammesso, come osservatore, anche il rappresentante francese, il ministro Charles Maurice de Talleyrand. L’anima del Congresso fu il primo ministro austriaco, il principe Klemens von Metternich che più di trent’anni dopo, nell’agosto 1847, scrivendo all’amico conte Moritz Dietrichstein definirà l’Italia un’espressione geografica .
La frase, ripresa l’anno dopo dal giornale napoletano Il Nazionale, passerà alla storia. Ma torniamo al Congresso di Vienna. Per garantire (e limitare) la stabilità in Europa era necessario che nessuna potenza prevalesse sulle altre, in perfetto equilibrio. Ed è proprio questo principio sul quale si fondò l’accordo, con l’aggiunta di un secondo: quello della legittimità, che avrebbe dovuto riportare sul trono le dinastie che regnavano prima della travolgente ventata napoleonica. In pratica, venne restaurato il potere assoluto dei sovrani. A garanzia di questo equilibrio Austria, Russia e Prussia istituirono la Santa Alleanza (santa, per la religiosità dei monarchi), alla quale aderì poi anche la Gran Bretagna e, tre anni più tardi, la stessa Francia.
Venne dunque definito anche il nuovo assetto territoriale dell’Italia: l’Austria, oltre al Lombardo Veneto, ebbe il controllo del Ducato di Parma (assegnato a Maria Luisa d’Austria), il Granducato di Toscana, il Ducato di Modena e Reggio. Ferdinando I di Borbone riebbe il Regno di Napoli che nel 1817 divenne Regno delle Due Sicilie e al papa Pio VII tornò lo Stato Pontificio. Fu un controsenso storico che avrebbe portato ben presto alla rivolta. Perché le idee liberali della rivoluzione francese avevano trovato un terreno fertile in special modo fra gli intellettuali e la borghesia imprenditoriale che chiedevano una Costituzione per delegare una parte del potere di governo al Parlamento. Nacquero le società segrete (in Italia la carboneria) che ispirarono alla rivolta. E rivolta fu: nel ’20 ’21 incominciarono i moti insurrezionali in Spagna (a Cadice, da parte della guarnigione militare) in Portogallo e nel Regno delle Due Sicilie, dove Ferdinando I fu costretto a concedere la Costituzione.
Particolarmente violenta fu la rivolta in Sicilia, animata da spirito separatista, sedata poi nel sangue. In Piemonte e in Lombardia la carboneria non fu da meno: a Torino Santorre di Santarosa che non nascondeva le sue intenzioni di dichiarare guerra all’Austria e liberare i territori italiani occupati dagli stranieri guidò i gruppi liberali confidando nel principe Carlo Alberto e quando la guarnigione occupò la città, il 12 marzo, il re Vittorio Emanuele I abdicò in favore di Carlo Felice, che in quel momento si trovava a Modena. La reggenza fu affidata al tentennante principe Carlo Alberto, che concesse la Costituzione e nominò ministro della guerra del governo provvisorio proprio Santorre di Santarosa. Ma Carlo Felice, rientrato a Torino, sconfessò il reggente, contando sull’appoggio della guarnigione di Novara rimasta fedele alla Corona. Il mese dopo fu proprio Carlo Alberto, a capo dell’esercito reale rafforzato dal contingente austriaco presente in Lombardia, a sconfiggere i rivoltosi di Santarosa.
In Lombardia la rivolta non fu neppure abbozzata: la polizia segreta arrestò, con altri cospiratori, Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, due personaggi che diventeranno il simbolo del nostro Risorgimento: furono rinchiusi nella tetra fortezza dello Spielberg, nella città ceca di Brno. Pellico scriverà Le mie prigioni , che per il loro impatto emotivo nei patrioti italiani costeranno all’Austria più di una battaglia persa. I moti del ’20 ’21 finiranno così. Furono il primo, grande segno del tramonto ormai imminente dei regimi totalitari, con conseguenze diverse da nazione a nazione ma tutte rivelarono due aspetti: la immediata e dura repressione di ogni insurrezione e la mancata partecipazione del popolo, spettatore inerte e ancora immaturo a recepire la pulsione libertaria. Eppure non mancavano i richiami storici all’unità, anche se erano ancora per pochi. Da Dante: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta cerca, misera, .s’alcuna parte in te di pace gode, (Purgatorio, VI), un richiamo dal sapore amaramente attuale; a Machiavelli, presentato dal massimo storico della letteratura italiana nell’Ottocento De Sanctis come il profeta appassionato e precursore dell’unità d’Italia . Per andare infine al contestato re di Napoli Gioacchino Murat, fucilato dai borbonici nel 1815 con il suo sogno di un’Italia unita.
I moti del ’30 ’31 non avranno in Italia a differenza di quelli scoppiati in Francia e in Belgio conclusione diversa. Ma intanto qualcosa maturava, in special modo grazie alla Giovane Italia, fondata nel ’31 da Giuseppe Mazzini, in esilio a Marsiglia: egli era convinto che i moti rivoluzionari avrebbero avuto come conseguenza l’insurrezione delle masse popolari. Il fatto è che nel Mezzogiorno, gli obiettivi di Mazzini non erano compresi dalla maggioranza della popolazione composta per buona parte da contadini. E non lo erano ancora, come sosteneva Cavour, neanche dalla maggior parte del popolo. Un tipico esempio di questi tentativi insurrezionali falliti è quello dei fratelli Bandiera, che contavano sull’appoggio dei calabresi ma vennero catturati dai borbonici e fucilati. Più coinvolgente la rivoluzione del 1848, che interessò, con l’Italia, buona parte d’Europa. In Italia la prima a insorgere fu Modena, poi Parma, Bologna e la Romagna, le Marche e l’Umbria.
Durissima la reazione austriaca: in pochi giorni la rivolta venne domata e il modenese Ciro Menotti con altri patrioti vennero giustiziati. I liberali moderati erano propensi a sostenere una federazione di Stati guidata dal papa (era la tesi sostenuta da Gioberti nel suo Del primato morale e civile degli italiani, dopo che Pio IX aveva avviato una serie di riforme in chiave costituzionale) o dai Savoia. I moti divampati in tutta la penisola ad eccezione del Lombardo Veneto ottennero un risultato modesto ma significativo: portarono comunque alla concessione di forme di costituzione simili al modello francese nel Regno di Sardegna (lo Statuto Albertino) e in quello delle Due Sicilie. In tutta Italia erano state conquistate libertà costituzionali ad eccezione del Lombardo Veneto, dove insorse prima Venezia e poi Milano da cui gli austriaci, il 22 marzo del ’48, furono cacciati dopo cinque giornate di durissimi scontri. Brescia si guadagnò l’appellativo di Leonessa , resistendo per dieci giorni all’assedio austriaco prima di capitolare e i veneziani non furono da meno.
Furono l’evidenza che l’aspirazione ad un’Italia libera dallo straniero era stata recepita anche dal popolo, pur mancando ancora l’idea di un regno affidato ai Savoia, avversata da personalità come Tommaseo, Cattaneo e Manin, sostenitori di una federazione di repubbliche indipendenti. Era comunque tempo di agire per il giovane re Carlo Alberto, che il 23 marzo del 1848 dichiarò guerra all’Austria, contando anche sull’appoggio dei volontari giunti da tutta Italia e dai corpi di spedizione inviati, paradossalmente, dal re di Napoli, dal granduca di Toscana e dallo stesso Pio IX. Ben presto però il papa ritirò le sue truppe (come avrebbe potuto far guerra a uno Stato cattolico come l’Austria?) e lo stes
so fecero gli altri due monarchi. Carlo Alberto restò solo, contro un Radetzky che, dopo le prime sconfitte organizzò l’esercito e gli inflisse una dura sconfitta a Custoza.
Che i tempi per l’indipendenza fossero ormai maturi lo dimostrarono anche tre improvvisate repubbliche scaturite da altrettante insurrezioni: la Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini, quella di San Marco a Venezia, presieduta da Manin e la Repubblica di Firenze retta da un triumvirato dopo la cacciata del granduca. Carlo Alberto, fu spinto dal suo governo a dichiarare nuovamente guerra all’Austria, ma fu sconfitto a Novara e ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele che firmò l’armistizio a Vignale, un armistizio caratterizzato da condizioni più che favorevoli dettate da parte di Radetzky, che non voleva indebolire il regno di Sardegna in un momento in cui prevalevano idee repubblicane.
Poi venne la restaurazione, sulle armi austriache, francesi e borboniche, la costituzione fu ritirata negli Stati in cui era stata concessa (ad eccezione del regno di Sardegna) e tutto fu come prima. Ma non per Cavour, che continuò a tessere la sua tela per inserire il regno nel gioco delle grandi potenze europee: l’invio dei bersaglieri in Crimea, gli accordi Plombières per avere il sostegno francese contro l’Austria, la seconda guerra d’indipendenza con l’annessione della Lombardia e quindi (dopo un’insurrezione popolare e un plebiscito) dell’Emilia Romagna e della Toscana, la spedizione dei Mille coronarono la prima parte di questo lungo cammino che ebbe la sua conclusione a Teano, con l’incontro di Garibaldi e il saluto a Vittorio Emanuele II, re d’Italia. Restavano aperte la questione del Veneto e di Roma.
La prima venne risolta con la terza guerra d’indipendenza (gli austriaci, sconfitti dai prussiani a Sadoga, furono costretti a chiedere la pace anche al Regno di Sardegna). La questione romana si chiuse con la breccia di Porta Pia e l’ingresso dell’esercito italiano in Roma, il 20 settembre del 1870. Un plebiscito, nel luglio 1871, sancì la conclusione del sogno unitario: Roma venne annessa al Regno d’Italia e ne divenne la capitale, dopo la provvisoria parentesi di Firenze.
Il Risorgimento fu un faro che illuminò l’Italia, ne scoprì le sue volontà di unità e di libertà. Senza i Savoia, e la loro determinazione ad espandere il proprio regno, l’Italia non sarebbe stata fatta. Oggi c’è da chiedersi quanto di quegli entusiasmi sia rimasto, nel 150º della nostra Patria: una celebrazione tiepida e quasi forzata, come se fosse un appuntamento obbligato da rispettare in fretta e in sordina.
C’è il fastidio di chi aspira a dividere ciò che è stato unito. O l’imbarazzo nel confrontare la situazione sociale e politica dei primi anni del Regno, non privi di ombre, con l’attuale: a leggere le cronache del tempo, troviamo formazioni politiche che si fronteggiano, una gigantesca questione meridionale condizionata da promesse mancate e rivendicazioni soprattutto dei contadini, l’esercito e le forze di polizia mandati a contrastare il diffuso brigantaggio con una repressione anche cruenta e i governi impegnati nel Mezzogiorno a modificare il vecchio ordine economico e sociale rimasto sostanzialmente immutato, abile a trasformarsi per restare quello che era. E c’è chi strumentalizza la rilettura, in tempo di relativismo, dello stesso Risorgimento, anche la repressione cruenta d’uno Stato che era considerato ancora straniero .
Il fatto è che, come avverrà anche all’indomani della Grande Guerra e del secondo conflitto mondiale, ha sempre prevalso la tendenza ad evitare di parlarne, anziché chiarire, ricostruire la verità priva di ideologie, con le sue luci e le sue ombre, affidando poi il tutto alla storia. E andare avanti. Nell’ultima seduta della Camera dei deputati a Firenze, il presidente Giuseppe Biancheri, dopo avere rivolto un saluto e un ringraziamento alla città, disse: Ed ora, onorevoli colleghi, arrivederci a Roma, sempre intenti al bene della Patria . Un’espressione che oggi sembra relegata al passato, in tempi in cui i nostri alpini cadono in terra lontana, fedeli al proprio dovere intenti, loro sì, al bene della Patria.
Giangaspare Basile
Pubblicato sul numero di novembre 2010 de L’Alpino.