Quel cappello al rovescio (parte 2)

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    Caro direttore, vorrei fare una precisazione riguardo la fotografia inviata da Daniele Finzetto (gruppo alpino di San Michele Extra, sezione di Verona) pubblicata sul mensile di ottobre “Quel cappello al rovescio”.

    La fotografia riprende un gruppo di partigiani fiamme verdi della Valcamonica (Brescia), guidate da Gianni Guaini a Milano il 4 maggio 1945, che sfilarono per solennizzare la Liberazione. Il cappello da alpino rovesciato sta a indicare la volontà di radicale cambiamento. Noi tutti stiamo ancora aspettando tale evento. Un saluto all’alpino Daniele e a tutta la redazione per il vostro lavoro.

    Bertuccio Vedovelli, Gruppo di Pompegnino, sezione di Salò

    L’immagine che vi ha inviato Michele Finzetto pubblicata a pagina 5 de L’Alpino di ottobre è forse la più bella e nota fotografia dei reparti partigiani vittoriosi. Era il 6 maggio 1945 a Milano, nei pressi del Duomo, sfilano le Fiamme Verdi, Divisione Tito Speri brigata Giacomo Cappellini, dal nome del suo comandante giustiziato da poche settimane alla vigilia della liberazione. Il primo da sinistra è mio papà Alfredo classe 1912, “undici anni di naja” soleva dire, e ricordava spesso che portava il cappello a quel modo perché “La s’era girada”. La forza di questa immagine però sta negli sguardi degli uomini, tanta fierezza per ciò che avevano fatto ma soprattutto un mare di speranza nel domani…

    Giacomo Cappellini presidente sezione Vallecamonica

    Caro direttore, mi riferisco alla “lettera al direttore” comparsa su L’Alpino n. 9/2013, dal titolo “Quel cappello al rovescio”. Il cappello calzato al rovescio è un dissenso espresso. Il 28 aprile 1945, quando Cuneo fu liberata, io ero un ragazzo di 12 anni, avevo fatto la staffetta partigiana fin dall’ottobre 1943, avevo passato i miei guai, che ho descritto nel mio ultimo libro (vedi “1957. Un alpino alla scoperta delle foibe” – Gaspari Editore, 2013) e la guerra mi aveva maturato in fretta. Anche a Cuneo i partigiani alpini sfilarono con il cappello alpino al rovescio per poter esprimere tutto il loro dissenso alla guerra ed alla vita grama che furono costretti a fare, con il viso euforico per la fine di quell’incubo.

    Mario Maffi – Sezione di Cuneo

    Le scrivo con riferimento alla lettera di Daniele Finzetto e alla foto allegata apparsa sul numero di ottobre. La posizione alla rovescia del cappello alpino portato dai partigiani alpini ha una ragione di praticità. Mio padre, aspirante ufficiale medico nella prima guerra mondiale e addetto al reparto alpino impegnato al passo della Sentinella mi diceva che gli alpini portavano spesso il cappello girato all’indietro per poter osservare più comodamente le alture circostanti e per non avere impedimenti alla linea di mira in caso di combattimento. Evidentemente il gruppo, rappresentato nella foto, voleva sottolineare la sua appartenenza alle formazioni combattenti. Sarebbe comunque interessante sapere se c’è ancora qualcuno di loro che possa dire la sua sull’argomento. Qualcosa di simile viene ricordato a proposito degli studenti di Brescia che tagliavano la punta del tipico cappello universitario per avere libera la mira nelle battaglie del Risorgimento.

    Nicola Mazzenga – San Gregorio Magno (Padova)

    Volevo fare due considerazioni su “Quel cappello al rovescio”. Primo: e se noi, nell’euforia delle nostre sfilate, indossassimo il cappello in quel modo? Secondo: quel cappello non doveva essere buttato al cielo ma bensì buttato via come era stato buttato via il giuramento per il quale quel cappello era stato indossato la prima volta.

    Sebastiano Fasol – Bussolengo (Verona)

    Mai avrei pensato che la lettera di Daniele Finzetto avrebbe suscitato tanto interesse. La prova è che sul mio tavolo sono piovute un sacco di lettere, dalle spiegazioni le più diverse e tutte assolutamente interessanti. Alla fine, oltre le varie interpretazioni, rimane un dato di fatto e, cioè, la forza simbolica del cappello alpino. In un tempo nel quale gli unici simboli vincenti sembrano quelli legati allo sport, sapere quali e quanti messaggi possiamo dire con il simbolo che portiamo in testa è fonte di orgoglio e di responsabilità.