Quei 13.500 eroi che non fecero ritorno

    0
    79

     

    DI CESARE DI DATO

     

    Conclusasi sabato 5 luglio l’impresa Cuneense in marcia di cui riferisce in altro articolo l’amico Nichele, la sezione di Imperia ha ricordato, al Colle di Nava il giorno dopo, per la 54ª volta consecutiva, la divisione alpina Cuneense, la divisione martire. Mai epiteto fu più appropriato: anche il passante più distratto non può che rimanere commosso nel leggere la targa che raccoglie gli scarni numeri che indicano il contributo di quella Grande Unità, il maggiore rispetto alle due consorelle, la Tridentina e la Julia, anch’esse ben più che decimate durante la vittoriosa ritirata.
    Vittoriosa ritirata: non è un ossimoro; realmente si è trattato di un movimento retrogrado condotto con abilità dai comandanti e attuato con decisione dai soldati, sì da trasformare una possibile rotta in una marcia vittoriosa a fronti rovesciate di cui andare fieri.
    Sono cifre che lasciano sbigottiti: dei 16.000 componenti della divisione meno di mille rientrarono intatti in Italia, se alla parola intatti si attribuisce il senso di meno toccati dal fuoco nemico e dalle privazioni .
    Degna di un finale wagneriano l’ultima giornata, a Valuiki, quando gli alpini superstiti, stretti intorno ai loro comandanti, generale Battisti in testa, sostennero una lotta impari contro una marea di carri sovietici, senza poter partecipare dell’apoteosi della Tridentina nella non lontana Nikolajewka.
    Né va dimenticata la divisione di fanteria Vicenza, che ne condivise le sorti, una divisione fatta di soldati più anziani, spediti in Russia con compiti di retrovia e poi scaraventati, quasi senza dotazioni, unitamente alla Julia che seppe far muro contro il dilagare di forze dieci volte superiori, a turare le falle lasciate da altre unità travolte dall’attacco sovietico di dicembre. Quattro divisioni, quattro destini diversi ma tutti con l’aureola del martirio e della gloria. Ma torniamo alla Cuneense: tredicimila scomparsi vogliono dire un’intera generazione cancellata nelle ubertose valli basso piemontesi, nelle solatie colline liguri, nell’aspro entroterra apuano. Vogliono dire la brusca interruzione di una catena generazionale perché i ragazzi non più tornati non si sono potuti formare una famiglia, non hanno potuto avere figli cui trasmettere il proprio DNA, né nipoti cui tramandare il nome. Dunque non solo di 13.500 Caduti si tratta ma di migliaia di persone mai nate, sacrificate sull’altare della follia di un dittatore dalla quale non potrà mai essere assolto. Questi i pensieri che la pietas degli alpini alimenta e che l’area sacra alla memoria di quei morti favorisce, un’area che la sezione di Imperia cura in modo perfetto nel loro ricordo.
    Ha detto bene il presidente Parazzini nel suo breve e incisivo discorso: Se non ci ricordiamo noi di loro, chi ne conserverebbe la memoria? Purtroppo si è costretti a dire: nessuno! Il tempo, si dice, è un grande medico ma, noi aggiungiamo, è anche un grande cinico: il suo trascorrere porta l’oblio e, spariti anche i parenti più lontani, del Caduto, lentamente ma inesorabilmente si perderebbe la sua memoria. Si perderebbe se, in ogni luogo ove è un alpino, non ne venisse curato il ricordo con una devozione che non si attenua con il passare delle generazioni: è questa la nostra forza . Ed è per questo che non parlerò della cerimonia che si è svolta secondo canoni ormai collaudati dalla consuetudine: pur presente il nostro Labaro, i vessilli di 14 sezioni, i gagliardetti di oltre un centinaio di gruppi, pur onorati della partecipazione di molti reduci di Russia, pur lieti dell’intervento di Beppe Parazzini e di tante autorità, non me la sento di rompere l’incantesimo, a un tempo dolce e commosso, che pervade il mio animo. In questa domenica i protagonisti sono stati quei 13.500 eroi: non disturbiamoli con parole di circostanza.