Perché ci vogliono bene

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    Se mai facessimo un sondaggio per chiedere alla gente cosa piace degli alpini, credo che ai primissimi posti della hit parade troveremmo la cordialità che incontrano nello stare con loro. Un’emozione? Un’impressione? Potremmo anche considerarla come una nota di colore. Ma non è così. Lo stare insieme come sanno fare gli alpini racconta molto di più di un fatto di folclore che qualcuno, con buona dose di ingenerosità, vorrebbe banalizzare dentro un fiasco di vino o qualche grappa di troppo.

     

    Credo che la ragione stia altrove. Mi diceva un noto poeta italiano: ci sarà un motivo se oggi un attore come Benigni insegna meglio la Divina Commedia di quanto non sappia fare la scuola. E il motivo è molto semplice.

    È il fatto che un istrione di talento sa trasmettere dei sentimenti che il lucido razionalismo, che ha invaso anche le nostre aule e i banchi di scuola, non consente più di far passare. Forse è proprio vero, come ormai sostengono in molti, che stiamo soffocando di razionalismo. Ce ne siamo ammalati correndo a perdifiato in questi ultimi due secoli.

    I rivoluzionari francesi hanno aperto le danze, insegnandoci che i lumi erano quelli che venivano dalla ragione e non quelli da accendere alla divinità. Poi siamo passati dalla industrializzazione e abbiamo visto a quali conquiste poteva portarci la nostra ingegnosità. Con la scienza abbiamo fatto l’ultimo salto. A braccetto con la tecnica essa ci ha spalancato il mondo come un passepartout, che dà via libera ad ogni strada possibile. Insomma, pian piano ci siamo convinti che per vivere basta ciò che sa produrre la nostra mente. Questo è il razionalismo che ci ha fatto diventare finalmente autonomi.

    Un laboratorio attrezzato o il pulsante di una macchina possono garantirci tutto ciò che serve per vivere. Dalla mente dell’uomo creatore viene tutto ciò che serve per l’avanzare trionfante della creatura. Siamo diventati autonomi, dicevo. Da Dio, se volete, ma prima ancora autonomi dagli altri. Abbiamo imparato, senza rendercene conto, che si può vivere facendo a meno degli altri. Come se gli altri non ci servissero, o peggio, come se gli altri fossero un disturbo.

    Lo sperimentiamo ogni giorno dentro le case, dove la rottura di legami affettivi, ma anche la soppressione fisica delle persone stesse, sembrano diventati banali espedienti per togliere il disturbo di presenze ingombranti. Lo notiamo ogni giorno nell’indifferenza di un autobus o di una metropolitana, popolati di solitudini mediatiche, ricurve su compulsati cellulari, per relazioni virtuali. Senza rendercene conto, il fondare la nostra vita sull’opera della nostra ragione ci ha resi autonomi, ma anche soli. Sempre più soli.

    Stiamo uccidendo l’amore, prigionieri di un razionalismo che ha ucciso la dimensione affettiva del vivere. Quella fatta di calore umano, di sentimenti, di semplicità di gesti e di parole, di canzoni che uniscono e di sorrisi che incoraggiano… Ecco perché gli alpini affascinano.

    Il loro non è lo stile di nostalgici del passato o, peggio, di persone incapaci di misurarsi con la modernità del tempo che avanza. Essi sono piuttosto lo sparuto esercito superstite di una umanità che non si piega ad un progresso fine a se stesso, dove si avanza con lo stridore dell’acciaio o le reazioni delle provette. Hanno gli scarponi ben saldi, ancorati dentro le orme dove ancora si cammina insieme per il gusto di restare insieme.

    Amano la ragione, la tecnica e la scienza. Ma non ne rimangono prigionieri, perché il cuore ha ragioni che la ragione non ha. E perché nessuna scienza e nessuna tecnica potranno mai regalarci la letizia di stare insieme sentendoci padroni della nostra libertà interiore. Razza in estinzione, penserà qualcuno. Lievito da non disperdere, diciamo noi. Per insegnare al mondo a continuare ad amare.

    Bruno Fasani