Nikolajewka, per me…

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    Questo è il discorso pronunciato dall’allora presidente nazionale Leonardo Caprioli a Varese il 26 gennaio del 1997, nel 54° anniversario della storica battaglia. È un testo che non ha bisogno di commenti e che dovrebbe essere letto di tanto in tanto nelle scuole per far riflettere i giovani sui sacrifici sopportati da quanti – giovani della loro età – furono mandati a combattere una guerra che non volevano né comprendevano, ma non per questo vennero mai meno a quanto imponeva loro il senso del dovere.

     

    Nikolajewka per me è il generale Martinat che, alpino tra i suoi alpini, si è buttato con loro contro quel baluardo che c’era al di là del terrapieno della ferrovia ed è caduto in mezzo ai suoi alpini, colpito in fronte da un proiettile nemico. Nikolajewka per me sono quei due aerei russi che, mentre l’Edolo, il mio battaglione, stava cercando di aprirsi la strada tra gli sbandati per correre in aiuto dei fratelli del 6° che fin dal primo mattino stavano combattendo, hanno fatto sopra di noi due o tre giri mitragliandoci ed aprendo così ulteriori paurosi vuoti tra le nostre file.

    Nikolajewka per me è il sottotenente Mori del battaglione “Verona” che, prima di partire all’attacco, ha chiesto al capitano se con i suoi alpini poteva fare un’ultima cantata: e fu proprio l’ultima, perché poco dopo cadeva alla testa dei suoi uomini falciato da una raffica nemica. Nikolajewka per me è l’attendente del sottotenente Nelson Cenci che, visto cadere il suo ufficiale con un ginocchio passato da parte a parte da una pallottola e con il femore dell’altra gamba spezzato da un’altra pallottola, lo raccolse amorevolmente e lo adagiò su una slitta, riuscendo in tal modo a portarlo in salvo: e quando Cenci, febbricitante e arso dalla sete gli chiedeva da bere, non avendo a disposizione nessun recipiente, riempiva la bocca d’acqua e poi gliela passava appoggiando le sue labbra su quelle del suo tenente e subito dopo gli diceva: “Forza, signor tenente, che ce la faremo!”.

    Nikolajewka per me è quella chiesa dal cui campanile una mitragliatrice seminava tra noi terrore e morte, e io ebbi l’ordine di andare a farla tacere: e allora mi misi a correre in direzione di quella chiesa e ad ogni passo mi dicevo: “Adesso mi prendono, adesso mi prendono, adesso mi prendono…”. E invece, come per un miracolo, quando fui a pochi metri dalla chiesa la mitragliatrice tacque e io allora mi misi a piangere. Nikolajewka per me è quel maledetto terrapieno che si presentò a noi candido perché coperto di neve e poco a poco divenne tutto nero, un puntino nero dopo l’altro, un alpino dopo l’altro.

    Nikolajewka per me è quell’isba dove, finita la battaglia, trovai riparo con un altro sottotenente e una quarantina di alpini: i pochi rimasti della 52ª dell’Edolo e dove poco dopo riuscì a trovarmi mio fratello, che era stato ferito il 16 mattina, quando i russi attaccarono l’Edolo e che il giorno prima era stato catturato e rinchiuso, con altri tre o quattrocento soldati italiani, in un capannone proprio a Nikolajewka, e noi li liberammo senza saperlo.

    Nikolajewka per me è il capitano Grandi del Tirano che, colpito a morte chiama a raccolta i suoi alpini e li invita a cantare “Il Testamento del Capitano” e muore così, con quelle note nel cuore. Nikolajewka per me è una marcia che non ha mai fine, fatta di spari improvvisi e di silenzi di morte, di urla disumane e di invocazioni di aiuto, di lacrime che ti restavano sugli occhi perché appena uscite si congelavano, di improvvise pazzie e di eroismi che non si possono raccontare perché ti risvegliano ricordi troppo dolorosi, di una pista nella neve dove ogni tanto qualcuno si lasciava cadere esausto e restava là, immobile nel gelo che subito lo pietrificava; di combattimenti disumani, di ferite, di dolore, di speranze e di pianti sconsolanti, del ricordo della mamma e della morosa.

    Nikolajewka per me è quella domanda che i nostri alpini ogni momento ci rivolgevano e che era diventata un’ossessione, una implorazione, una speranza e un pianto: “Signor tenente, quando torneremo a baita?». Non dicevano quando torneremo in Italia o in Lombardia o in Friuli; avevano nella mente e nel cuore solo la loro baita, con quel calore che solo gli affetti familiari sanno dare, con il focolare dove nelle umide serate d’autunno e nelle gelide notti invernali ci si sedeva e i più anziani raccontavano ai più piccoli meravigliose favole nelle quali quasi sempre l’eroe che vinceva i cattivi era un uomo che portava un cappello con una lunga penna nera. E pensando alla baita che tutti gli alpini hanno sempre nel cuore mi torna in mente una frase che ieri, a Brescia, una bambina di 11 anni della Scuola “Tridentina”, ci ha detto al termine del suo saluto ai reduci: “Il mio villaggio è il mondo”.

    In questa frase di una profondità concettuale e di un valore immenso c’è tutto: il desiderio di una bambina di 11 anni – nella sua innocenza, non ancora conscia delle brutture in mezzo alle quali purtroppo viviamo – di non voler limitare i suoi affetti e le sue speranze solo alla sua casa, alla sua baita, ma di voler allargare questi suoi sentimenti al mondo intero: ed ecco allora che, come per un miracolo, i muri che delimitano la baita vengono abbattuti e la singola baita si allarga e si unisce ad altre baite diventando paese, provincia, regione, nazione, Europa, mondo. In questo concetto e con questa visione ogni baita deve essere in grado di vivere, non solo nella sua ristrettezza, ma deve essere in grado di dare il suo contributo e il suo aiuto alle baite di altri uomini che meno di lei hanno la possibilità di vivere e di produrre: ognuno deve avere il sacrosanto diritto di vivere per se stesso, ma anche e soprattutto deve sentire il dovere di dare aiuto a chi ne ha bisogno, porgendo la mano al vicino con la sicurezza che, quando ne avrà bisogno il vicino gli porgerà la sua.

    Bisogna fare in modo che da ogni baita non debba essere mai allontanato il focolare, fonte di calore e di vita: il giorno in cui dovessimo togliere il focolare non solo dalla nostra ma anche da tutte le altre baite, avremmo dei corpi senza cuore e senza anima e saremmo in tal modo riusciti a distruggere il sentimento più nobile e più bello che deve albergare in ogni uomo: l’amore per il prossimo. Per questo sono morti i miei alpini a Nikolajewka, senza pensare egoisticamente solo a se stessi, ma offrendo i loro vent’anni anche a tutti quelli che, non più in grado di combattere e di continuare la marcia, avevano posto in loro ogni speranza. L’Associazione Nazionale Alpini deve essere per noi tutti come una grande baita che vive, accanto ad altre, nella nostra Italia: tanti alpini, spontaneamente e con l’affetto che provano nei miei confronti spesso mi dicono che io sono il “papà di tutti gli alpini d’Italia”.

    Quando questa sera lascerò Varese vorrei avere nel cuore la certezza che la nostra baita resterà sempre unita con quell’amicizia, quel calore, quell’affetto che ci hanno sempre contraddistinto e che fanno di noi una grande, unica, invidiata famiglia. Ve lo chiedo e lo spero per quei 28 ragazzi del mio plotone che non sono più tornati, ve lo chiedo per tutti quegli alpini che oggi noi vogliamo ricordare. Grazie, amici, per questo vostro essere uomini e alpini al di sopra degli egoismi personali: vi saluta e vi abbraccia il vostro papà alpino; a voi tutti buona fortuna.

    Leonardo Caprioli