Natale, sognando la pace

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    Natale è per eccellenza la festa della pace. Ma nessuno può parlare di pace meglio di chi l’ha sospirata, sognata, sperata durante i giorni terribili della guerra.
    Con la società del benessere, il consumismo, il nuovo modello di vita, la corsa affannata per caricare una barca che dovrebbe invece navigare leggera abbiamo perso per strada i significati più profondi del Natale.
    Purtroppo stiamo scoprendo ancora una volta quanto sia necessario vivere in sicurezza e pace e quanto sia difficile difendere questi essenziali valori.
    Per questo vogliamo proporre due nostre pagine, una di Peppino Prisco e l’altra di Giulio Bedeschi. Pensiamo che non ci siano parole che dicano meglio cosa sia il Natale e cosa siano gli alpini.

     

    Natale 1942

     

    di Peppino Prisco

     

    C’era Gesù, tra noi, nelle trincee presso il Don, a tenerci compagnia nel gelo.
    Se no, di che saremmo vissuti, se neppure Lui ci avesse parlato, nel silenzio notturno della steppa?
    Chi può vivere soltanto di gelo, di fame e di fuoco?
    Ed allora, Lui ci sussurrava il nome della mamma, ne adoperava la voce per offrire l’augurio e il dono di Natale: ‘Ritorna figliolo noi ti aspettiamo’.
    Innumerevoli gomitoli grigioverdi rannicchiati ed infissi nella neve, eravamo un’unica linea presso il Don ma pochi per la bianca vastità di Ivanòwka, Golubòja, Krìniza, Nova Kalìtwa: molti soltanto a Selèny Jar, al piccolo cimitero nato dal sangue degli Alpini de ‘L’Aquila’.
    Il Bambino parlava a noi, si soffermava in silenzio ed inatteso dinanzi a Loro.
    Li attendeva per portarli con sé nella notte di Natale.
    Noi superstiti restavamo sgomenti, quel mistero si esprimeva soltanto in dolore: sopra la neve, sotto la neve legava un’unica fraternità, una stessa sorte.
    Ma noi siamo tornati.
    Non c’è più Natale eguale a quell’ultimo nostro: ogni anno siamo là, su quella neve a chiamarLi.
    Fratelli nostri, noi vi ricordiamo.

     

     


     

    La Messa di Natale

     

    Tratto da ‘Centomila gavette di ghiaccio’ di Giulio Bedeschi, Mursia editore.

     

    La notte di Natale calò sulla distesa bianca; era patetica e struggente come solo i soldati in trincea la sentono, lontani da ogni bene, dispersi nel silenzio, prossimi alle stelle.
    A mezzanotte, dalle gelide tane disperse fra la neve, ombre lente sortirono sulla pianura e s’avviarono silenziose verso un punto un poco luminoso. Convenivano dagli esigui tuguri ricavati fra neve e terra, pazientemente divisi con pidocchi e topi; andavano a processione e giungevano alla piccola luce, alla baracchetta del Comando di battaglione a salutare Gesù, poiché il cappellano Lo chiamava tra
    gli alpini, in quella notte: diceva la Messa di Natale in prima linea e Lo pregava di scendere a trovare gli alpini, che Lo attendevano con puro cuore.
    Pochi avevano trovato posto nella baracchetta, i più stavano nella neve, si erano inginocchiati nella neve e dalla porticina aperta vedevano le due candele accese e il cappellano che pregava per chiamare Gesù.
    Il cappellano pregava con fervore ma un poco in fretta, perché gli alpini tremavano di freddo, quarantadue feroci gradi sotto zero, ma erano venuti da Lui. Stavano fermi e buoni nella neve, le ginocchia sprofondate nel bianco parevano di ghiaccio; tenevano la testa bassa a dire le loro semplici preghiere e ogni tanto l’alzavano a guardare il chiarore delle due candele.
    Il cappellano leggeva in fretta e a bassa voce le parole della Messa di Natale.
    Vedi, Bambino Gesù forse diceva il suo cuore mentre gli occhi scorrevano sulle righe del messale questi sono gli alpini che fanno la guerra. Ma non ne hanno colpa, Tu lo sai. Sono stati mandati, e devono ubbidire. Preferirebbero lavorare tranquilli nelle loro case, per i loro figli e per le mogli che sono rimaste sole, e per i vecchi. A loro non manca la buona volontà di servirTi in pace proprio come vorresti Tu, Pax hominibus bonae voluntatis. Vedi invece dove sono finiti e come soffrono, che vita fanno! Guardali come sono ridotti, quasi peggio di Te quando nascesti: hanno solo un po’ di fradicia paglia per sdraiarsi; Tu almeno avevi, scusa, il bue e l’asinello a riscaldarTi col fiato. Loro, no.
    Il loro fiato esce dalla bocca e diventa brina, ricade sul bavero e sul petto del cappotto, anche quando dormono; si svegliano così, poveretti, col ghiaccio sugli abiti. E sopportano, perché sono mansueti ed umili di cuore, come Tu vuoi. Quando mi sono voltato verso di loro per annunciare Gloria in excelsis Deo, ho visto che sono inginocchiati nella neve rivolti al Tuo altare: me l’aspettavo, li conosco bene. E stanno a testa china, Ti pregano, se li ascolti sentirai che Ti chiedono soprattutto di farli tornare presto a casa, alle loro montagne; da soli non possono andarci, sono capaci di morire qui, per ubbidire. Tu stesso li hai fatti così; ma se li restituisci alla casa sentirai che felicità, che bontà d’intenti e d’opere vive nel loro cuore Press’a poco così doveva pregare il cappellano, perchè era un alpino anche lui.