Montenegro: così salvai 22 prigionieri

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    Mio padre, Giuseppe Bianchini (indicato dalla freccia nella foto sotto), nato a Misano Adriatico il 19 agosto 1915, nel maggio del 1942 era sottotenente veterinario nel battaglione Feltre. Oggi abita ancora nella casa dove è nato, in via Scacciano, 46. È assai fiero di essere alpino.

    Dopo l’8 settembre ’43 è tornato a casa dalla Francia, a piedi, passando sul crinale dell’Appennino. Ancora oggi fa un chilometro sul tapis roulant, ogni giorno. Vive serenamente con sua moglie, che ha un mese più di lui. Godono di buona salute e, al momento, non necessitano di assistenza alcuna. Si sono fidanzati che avevano diciotto anni, sposati a ventitré.

    Pio Bianchini


    Montenegro, Col del vento, mille metri di altitudine, dopo il 6 maggio 1942. Siamo su un monte pelato, in una zona boscosa, dove tira sempre un ventaccio gelido e furioso. Di qui il nome che gli hanno dato gli alpini: Col del vento. Su questo colle abbiamo stabilito il campo del comando del battaglione Feltre, durante un rastrellamento la cui durata si presume debba essere abbastanza lunga. Fin dalle prime luci dell’alba, tutto il battaglione è partito per rastrellare le sponde del Lim (il Lim è il principale fiume del Montenegro ed oggi è una delle mete turistiche di Bijelo Polje. È lungo 220 chilometri e sfocia nel fiume Drina, n.d.r.). Al campo sono rimasti pochi alpini, più o meno ammalati, un sergente ferito ad una mano ed un ufficiale: quell’ufficiale sono io.

    Fra tutti siamo meno di venti. A turno, il sergente ed io facciamo il giro della nostra debolissima difesa, a vedere che le nostre sentinelle, alcune con la febbre, non si siano addormentate e facciano buona guardia. Così, pian piano, si è fatto ormai mezzogiorno e stiamo preparando pane e formaggio per le nostre sentinelle, quando sentiamo un colpo di moschetto e una sentinella che grida. Ci precipitiamo verso il luogo donde è provenuto lo sparo: troviamo un agitatissimo alpino, col fucile puntato, pronto a sparare contro un bersaglio che si rivela essere un uomo tutto tremante con le mani alzate. Gli gridiamo di venire avanti. È un ometto piuttosto anziano, spaventatissimo, che balbetta in montenegrino.

    Il sergente si ricorda che tra gli alpini che hanno marcato visita quella mattina, ce n’è uno che mastica un po’ di slavo. Egli ci informa che quel contadino fa parte di un gruppo di ventidue uomini che, dice lui, non sono partigiani, ma solo montanari del posto, che vogliono arrendersi per non essere scambiati per partigiani e fucilati. Siano o non siano partigiani, si tratta pur sempre di un gruppo di uomini sani e robusti da catturare e disarmare: noi siamo meno di loro e dobbiamo assolutamente restare a guardia dell’accampamento. Con un paio di raffiche di mitra potremmo ucciderli tutti e il problema sarebbe subito risolto: il sergente è di questo parere. Il pensiero di uccidere a sangue freddo ventidue poveracci, contadini di montagna, mi fa ribrezzo e mi ripugna decisamente.

    Abbiamo, al centro dell’accampamento, una buca quadrata, di cinque metri circa di lato, profonda più di due e circondata da un robusto recinto di filo spinato. Il sergente e l’alpino interprete vanno a prendere il primo gruppo di quattro prigionieri. Così, a gruppi di quattro, man mano che arrivano, ci accertiamo che non nascondano armi, facciamo loro vuotare le tasche, scriviamo su un foglio nome cognome e indirizzo e poi li spediamo in fondo alla buca, sotto la guardia di due alpini armati di mitra che, dall’alto, li sorvegliano. A questo punto incomincio di nuovo a respirare e riprendo a preparare pane e formaggio per gli alpini. Ne preparo anche in quantità conveniente per la “fossa dei leoni”. Mentre mangiano chiedo loro di servirsi di un intermediario che possa parlare a nome di tutti. Viene scelto quell’ometto che si era presentato per primo. L’intermediario incomincia col chiedere per sé e per i suoi la certezza di avere salva la vita.

    Io non ho nessuna autorità per assumere un così importante obbligo da parte dell’esercito italiano. Tutto quello che posso promettere è di trasmettere questa loro richiesta con il mio modestissimo parere favorevole. Il prigioniero incomincia a raccontarmi la loro triste storia. Da più di sei mesi sono in balia degli umori dei serbi, partigiani di Tito, che si divertivano a tormentare, torturare ed uccidere i musulmani che vivevano nella loro zona. Per tutto l’inverno avevano vissuto sotto l’incubo di una incursione di partigiani che li avrebbero sicuramente uccisi tutti. In aprile erano cominciati i rastrellamenti degli italiani, e allora avevano deciso di consegnarsi a noi per aver salva la vita. Ormai il tramonto si avvicina ed il ritorno del battaglione non è lontano.

    Io per primo, ma anche tutti gli altri, siamo sottoposti da molte ore a una pressione fortissima, che si allenta soltanto quando vediamo, finalmente, sbucare dal bosco il colonnello Castagna, che rientra alla testa del battaglione. Qui potrebbe terminare il racconto, se non fosse per la presenza nel battaglione Feltre di un giovane e battagliero capitano della Compagnia Comando, il quale pensava di far carriera e di coprirsi di gloria a forza di atti di durezza e di rigida disciplina nei confronti di chiunque avesse a che fare con lui. C’era in quei giorni l’ordine della Divisione di passare per le armi chiunque fosse sorpreso armato in procinto di commettere atti ostili contro le truppe italiane. Il capitano pretendeva essere nostro dovere fucilare immediatamente questi uomini.

    Pur essendo io un pivello inesperto e senza alcuna autorità, mi scaldai alquanto e presi a difendere i miei prigionieri. Anche se non era vero, arrivai ad affermare che mi ero impegnato ad assicurare salva la vita in cambio della resa che veniva offerta. Il colonnello, in presenza del quale aveva luogo il vivace battibecco, ci lasciò discutere per una decina di minuti, poi pose fine alla diatriba dicendo: “Basta! Smettetela, ho deciso: domani manderò i prigionieri al comando di Reggimento. Lei, tenente, scriva un accurato rapporto e, se crede, vi aggiunga le sue considerazioni. Se, come penso, saranno simili alle mie, trasmetterò il tutto al comando con il mio parere favorevole e staremo a vedere cosa succederà”. Le mie considerazioni furono accolte, i ventidue uomini finirono in campo di concentramento e, dopo qualche tempo, furono rimessi in libertà.