Montagna sacra

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    Ortigara, Golico, Nikolajewka, luoghi della memoria e della leggenda alpina. Non sono comparabili alla Somme, Verdun, Stalingrado eppure nell’immaginario collettivo segnano in modo indelebile il non senso delle sciagure che hanno devastato l’Italia e l’Europa nella prima metà del secolo scorso. Nello stesso tempo da quelle memorie emerge con la forza della sublimazione la grandezza dell’uomo-soldato. Nulla è più intrigante di quella pietraia, appiattita nella suggestiva cerchia degli Altipiani che si estende dal Caldiera a Cima Dodici per finire sul Portule.

     

    L’Ortigara prima dell’occupazione da parte degli austriaci nel 1916 era un pastorile frequentato solo da greggi e animali selvatici. Il monte, un toponimo anonimo: quota 2.105. Improvvisamente diventa obiettivo strategico, poi un mito. Clemenceau, grande regista del Trattato di Versailles, era solito dire che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali (nemmeno per lasciarla decidere ai politici, aggiungiamo).

    C’è della verità in quelle parole anche nella linea di comando della battaglia dell’Ortigara. Ma i soldati, proprio lì e forse per questo, dimostrarono la loro caratura di uomini e di combattenti. Si doveva conquistare quel monte brullo e scosceso, difeso da montagne di filo spinato, trincee e caverne in posizione dominante? Fu conquistato.

    Il prezzo lo conosciamo. Fatica, sofferenze strazianti e morte. Aggiungiamo anche la consapevolezza che a quota 2.105 non si poteva resistere senza uno sfondamento del settore sud. Che non ci fu. Dopo una settimana sotto il martellamento dell’artiglieria austriaca e un brutale attacco, con l’impiego anche di lanciafiamme, tornarono alle basi di partenza, segnati nel corpo e nell’anima in attesa del “cambio per dismotar”. E poco dopo ripresero fucile e zaino destinati al Piave, Monte Grappa, Vittorio Veneto. Eroi? No, solo alpini.

    Monelli racconta che qualche settimana dopo la battaglia dell’Ortigara ebbe una licenza e si recò a Venezia per incontrare suo padre lì in servizio come colonnello di sanità. Saluto militare, poi un forte abbraccio fuori ordinanza. Seduti in un bar a fronte della dolcezza romantica del Canal Grande parlano della famiglia e della salute. La guerra è lontana, quasi un sogno. Dopo un breve silenzio, improvvisamente, il padre chiede: “Eri sull’Ortigara?” Paolo fa una pausa e annuisce. Il colonnello abbassa la fronte per nascondere l’emozione e mormora sottovoce “non so se avrei retto”.

    L’Ortigara non è diventata casualmente un monte sacro. Ci sono stati morti, tanti, feriti, di più, dispersi, la gran parte. Ma c’è stata soprattutto, in poche settimane, un’enorme ondata di umanità sofferente sconvolta da incubi, angosce, paure che ha coinvolto oltre ai combattenti madri, padri, spose, figli e povere ragazze con i sogni nascosti nel cuore.

    Notizie dal fronte poche e quando arrivavano erano solo di morte. Sugli schieramenti dei reparti e le dinamiche dei combattimenti ormai sappiamo molto, quasi tutto. Sul patrimonio di umanità che ha subito le conseguenze di una battaglia difficile da capire abbiamo solo qualche testimonianza. Poco, quasi niente. I veri protagonisti o non hanno scritto o sono rimasti lì, con “le scarpe al sole”. Per questo ricordiamo e torniamo lassù. Non per un’escursione o una festa di mezza estate ma per passare dalle trincee italiane a quelle austriache, possibilmente da soli, immersi nel silenzio di una natura selvaggia e affascinante, con lo sguardo e il pensiero rivolto alla valle del “cimitero di noi soldà”.

    I sacrifici di generazioni sfortunate, di popoli anche oggi sotto l’incubo degli orrori della guerra fanno riflettere sulla “profezia” di Albert Camus: “Il seme della violenza non muore e non morirà mai”. A ricordarlo a tutti, lassù c’è una colonna mozza. Domina un monte ridotto ad una pietraia spettrale dove i prati di Olmi nessuno sa se torneranno a fiorire.

    Vittorio Brunello
    v.brunello@libero.it