La storia nella roccia

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    La magia del Pasubio nasce dalle piccole, esili, stelle alpine che spuntano nei recessi della roccia. È la vita che si rinnova umile nei luoghi dove la morte bussava al sibilo dei proiettili dei Mauser o dei ’91; laddove il tempo e lo spazio erano sanciti dai colpi degli obici, dalle mine e dalle trincee, scavate anch’esse nella roccia.

    Il Pasubio è tutto qua, terra di confine fin dalla Repubblica Serenissima. Alle porte, scolpito nella roccia, è possibile vedere ancora ciò che resta di un leone di San Marco. È un massiccio inospitale, senz’acqua, senza ripari, che possiede la stessa bellezza delle gavette di latta in dotazione ai soldati che dal 1916 al 1918 furono attori di assalti infiniti e complesse opere ingegneristiche. Cioè nessuna.

    Qui ogni prima domenica di settembre la sezione di Vicenza organizza l’annuale pellegrinaggio; un’ideale professione di fede in ricordo dei soldati, non solo alpini, non solo italiani, non solo cristiani, che sul Pasubio morirono combattendo. Non sappiamo se nel conto sono compresi anche gli uomini impiccati dalle controparti come traditori o spie, o i disertori fucilati dagli stessi commilitoni. Tant’è, esattamente 90 anni fa, il 29 ottobre 1922 un Regio Decreto dichiarò sacra l’area sommitale del Pasubio. Si sale dalla Strada degli Eroi o dalle 52 gallerie.

    A chi s’inerpica su quest’ultimo sentiero, dal Passo Fontana d’Oro, arrivano i rumori di qualche fuoristrada di troppo che sale dagli Scarubbi. La Selletta Comando è avvolta nella nebbia come tutto il resto, mentre dagli stessi fuoristrada escono figure che calzano scarponi e armeggiano zaini d’alta quota. Davanti alla chiesa voluta da don Francesco Galloni, l’alzabandiera da inizio alla cerimonia conclusiva del pellegrinaggio.

    Il giorno prima, all’Ossario di Colle Bellavista e ai Denti italiano e austriaco, le penne nere avevano omaggiato i Caduti. “Ricordando i ragazzi di allora, non possiamo non pensare ai ragazzi in divisa di oggi, che dalla Bosnia Erzegovina all’Afghanistan hanno onorato l’Italia e il cappello d’alpino”, dice Giuseppe Galvanin, presidente sezionale, di fronte a una selva di vessilli e gagliardetti. Il consigliere nazionale Antonio Munari parla di una “società civile che spesso dimentica le proprie radici, e di alpini garanti di un patrimonio umano condiviso”.

    Ad ascoltarli, cinquecento penne nere e una rappresentanza del 7° Alpini e del 2° artiglieria da montagna “Vicenza”. Più di altre montagne, è il paesaggio tormentato del Pasubio che racconta la guerra sugli Altopiani lasciando vagare la mente dei pellegrini tra mille, personali, riflessioni. Lo sapeva bene il generale Vittorio Emanuele Rossi che proprio dentro questa roccia volle essere sepolto.

    Perché quando la voce degli oratori scivola via, è ancora una volta la montagna a prendere per mano i viaggiatori e guidarli. Si raggiungono i Denti, in silenzio, col suono degli scarponi sulla roccia come unica compagnia. Il camminamento Ghersi, il Corno Battisti, le gallerie, Cima Palon, i roccioni della Lora: luoghi familiari che si svelano passo dopo passo in un teatro lunare.

    È la strada compiuta dagli alpini del battaglione “Vicenza”, del “Cervino” e del “Monte Berico” e da tutti gli altri reparti che gli storici ricordano nei loro volumi. “Tra il Pasubio e la Grande Guerra c’è un legame talmente profondo da spingere a pensare che il primo esista perché è stata la seconda a generarlo”, scrivono i vicentini Mauro Passarin e Vittorio Corà, ne “Il Pasubio e la Grande Guerra – Segni della Memoria” novanta pagine che ripercorrono dalla sua genesi il progetto di valorizzazione del patrimonio storico della Grande Guerra che, proprio sul sommitale del Pasubio, ha visto gli alpini protagonisti nel lavoro di recupero. Così, sulla montagna modellata a suon di proietti, dalle vanghe e dai picconi dei soldati, restano ben visibili osservatori e trinceramenti.

    Di tanto in tanto, le rocce e gli anfratti rilasciano ancora ossa e brandelli di stoffa dove oggi fioriscono le stelle alpine. È la vita dopo la morte. E, come ogni anno, sono in pochi quelli che scendendo dal Pasubio e non si voltano indietro almeno una volta.

    Federico Murzio