Infuriati, feriti, fatalisti, combattivi, solidali. L’animo delle persone che ho incontrato nel viaggio tra l’Abruzzo e le Marche varia sulle sfumature di uno stesso sentimento. Oltre al dramma del terremoto che continua a scuotere il territorio gli abitanti hanno dovuto subire i gravi disagi connessi alle eccezionali nevicate. Giorni e giorni con strade interrotte e frazioni isolate, elettricità assente e comunicazioni impossibili: «Disastrati e tagliati fuori dal mondo», come mi ha detto un signore con amarezza. È come se le difficoltà esaltino virtù e difetti del carattere di ciascuno. Tutti vantano le loro ragioni, ma la verità è che tutti hanno ragioni da vendere. Sradicati dalle loro case e dalle loro comunità il disagio si somma alla paura di essere abbandonati, dimenticati.
Il 18 gennaio scorso Capitignano, mille metri d’altitudine, alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, è stato l’epicentro del sisma. Una serie di scosse, la più intensa di magnitudo 5.5, ha reso inagibili la gran parte degli edifici. Il sindaco ha riaperto l’Ufficio ricostruzione e ha riattivato la struttura polivalente vicino al campo sportivo, alle porte del paese.
Tra i venti ospiti rimasti c’è Pietro. È seduto su una panca che porta tutto il peso dei suoi ottant’anni. Gambe larghe, sguardo perso nel vuoto della palestra, in attesa. «Per due giorni ci siamo arrangiati al laghetto nei pressi del Santuario della Madonna in Pantanis, poi ho preferito venire qui, anche per combattere il freddo e la bronchite», racconta. Pietro abitava a L’Aquila ma dopo il sisma del 2009 la sua abitazione è stata dichiarata inagibile e in mancanza di alternative si è dovuto spostare nella vecchia casa di famiglia di San Giovanni Paganica, a pochi chilometri da Capitignano. Accanto alla sua branda il cappotto, la coppola, le scarpe, in un sacchetto i suoi averi, «il resto è tutto là, dove non si può andare…», ci dice con una smorfia; poi aggiunge speranzoso: «A luglio ritornerò a L’Aquila, nella casa rimessa a posto… se tutto va secondo i piani…».
Nella struttura dormono anche famiglie con genitori in età lavorativa: «Escono al mattino presto e alla sera non potendo rientrare a casa, vengono qui», racconta un volontario dell’Anpas di turno per l’assistenza. Intervengono altri due ospiti e la rabbia aumenta: «Ha visto come siamo conciati! Lo Stato ci ha letteralmente abbandonato e siamo stufi! Ce la siamo cavata da soli, con il sindaco e pochi altri a scavare nella neve, tra le rovine per giorni. E gli aiuti di cui tutti parlano dov’erano?! Ci hanno abbandonati, ma non ci fanno più fessi!».
Il borgo di Montereale è nelle stesse condizioni, ma la situazione al palazzetto è molto diversa. È tutto gestito dalla protezione civile della Sezione Abruzzi: il campo base a Montereale, quello a Cesaproba e le strutture a Marana e a Ville di Fano. Nicola è un volontario Ana e il suo compito è quello di rifornire di gasolio il sistema di riscaldamento delle strutture, «ma dove c’è da fare vado, la logistica, il magazzino e l’assistenza alle 120 persone, che di giorno si riducono ad un quarto circa». Poi c’è la distribuzione dei pasti: «Ogni mattina facciamo la lista di quanti mangiano, andiamo nei ristoranti della zona che preparano le pietanze» e le distribuiscono agli ospiti come Lina che non ha esitazioni nel dire che al campo si trova molto bene, nonostante la situazione. Arriva da Castiglione ed è sola, il figlio vive a Roma e viene a trovarla compatibilmente con gli impegni lavorativi. La sua casa è agibile ma ha paura di dormirci dentro per le scosse e ha temuto di rimanere isolata per la neve. «Eh, che vuoi fa’… ora si fa a turni per spazzà e tenere pulita la nostra nuova casa».
Sul pavimento di compensato sono allineate un centinaio di brande coperte da piumoni multicolori. Nell’angolo all’ingresso i tavoli per pranzare e per ritrovarsi a far quattro chiacchiere. Sulle pareti i disegni inviati da alcune scuole di Como: “Teniamoci per mano!”, c’è scritto su uno di essi. Un messaggio di speranza da chi è più fortunato. L’ospite più anziano è Bruno, 93 anni, due occhietti azzurri e vispi e un’eleganza impeccabile con il cappotto blu e il cappello tirolese. Quando mi dice: «Quello di ordinanza è rimasto a casa!», capisco che c’è qualcosa sotto. Mi dice che è un alpino della 108ª compagnia del battaglione L’Aquila, reduce di Monte Marrone.
«Nei miei 36 mesi di naja, durante la guerra, ho aiutato tanta gente che ci guardava con occhio affezionato. Donavamo loro coperte, vestiti, tutto quello che potevamo per aiutarli, con un senso di profondo rispetto per il bene. E ora, dopo tanti, tanti anni, sono gli altri e gli alpini che aiutano me». Occupa con la moglie Antonietta due brande in fondo alla palestra e quando le sue medicine scarseggiano c’è sempre qualche volontario che si fa in quattro per recuperarle.
Dopo un’oretta di guida su strada ghiacciata raggiungo Campotosto, sommerso dalla neve. L’abitato sorge a 1.400 metri, a monte del più grande bacino idrico dell’Abruzzo, il secondo più grande d’Europa. Il Capogruppo Alfredo Perilli e l’alpino Candido Casimiri raccontano che il terremoto di gennaio ha dato il colpo di grazia alla loro realtà: «Più dell’80% del paese ha case inagibili, ma è da anni che Campotosto subisce lo spopolamento, perché i giovani non vogliono fare i vecchi mestieri legati alla terra. Con queste ultime scosse sarà difficile che ritornino: molti di loro hanno accettato la sostituzione edilizia che permette di vendere le case qui al Comune per acquistarne altre sulla costa». Per non far morire il paese la prospettiva è quella di «tutelare al massimo i giovani rimasti che in genere sono allevatori. Sarebbe poi possibile sfruttare il lago per la pesca o per il turismo locale», suggerisce Alfredo.
Oltre alla ricostruzione è quindi importante ricreare un’economia del territorio per dar la possibilità alle persone di poterci vivere. In quest’ottica «il Comune ha pensato ad alcuni microinterventi, come un campeggio o una struttura di ristoro vicino al lago, per far stabilire qualche famiglia nella zona facendo pagare un affitto simbolico». Ma queste iniziative non sono sufficienti perché oggi sono rimaste poche persone che vivono in una decina di Moduli Abitativi Provvisori costruiti nel 2010.
Tra i Monti della Laga, a Valle Castellana e nelle sue 34 frazioni, la situazione è altrettanto complicata. La popolazione è rimasta una settimana totalmente isolata, sotto tre metri di neve e senza elettricità, che vuol dire senza riscaldamento e comunicazioni. Dopo giorni il bar nella piazza centrale del paese è riuscito a riaprire. Incontro il sindaco Vincenzo Esposito, insieme agli alpini Enea Giovannini e Nicola Di Ridolfi. «Alla neve qui siamo abituati, ma in una notte ne è caduta tanta da arrivare al primo piano di una casa! Poi ci si è messo pure il terremoto…», raccontano. Sui loro volti è evidente la stanchezza, ore e ore passate a spalare e ad aiutare la gente del paese ad uscire dalle case lesionate. «Abbiamo portato, a braccia, uno alla volta, le persone alla caserma dei Carabinieri all’ingresso del borgo e abbiamo allestito 160 posti letto e un refettorio d’emergenza con i viveri di cui, prudentemente, avevamo fatto scorta». Sono arrivati in soccorso anche i ranger del 4º Alpini paracadutisti che si sono calati da un elicottero: «Ci hanno aiutato tanto con la neve – dice con soddisfazione Nicola – ma visto che i viveri per fortuna li avevamo, abbiamo dato da magnà pure a loro!».
Il disagio della comunità si intreccia con la storia personale. Nicola racconta che lui la casa non ce l’ha più e fino a qualche giorno fa dormiva in un container. Ma il peso della neve lo ha sfondato e per la notte è costretto ad andare dalla figlia, ad Ascoli. È diventato buio e la strada non è in buone condizioni: «Passiamo a prendere una signora che ha bisogno, seguimi e scendiamo insieme… non si sa mai…». Durante la lunga e tortuosa discesa non smetto di pensare al grande cuore delle persone che ho conosciuto.
Lascio l’Abruzzo e mi dirigo nelle Marche. Il cratere del sisma è vasto e ogni realtà ha le sue peculiarità e problemi specifici. Il vice sindaco di Arquata del Tronto Michele Franchi e i compaesani sono accolti negli alberghi sulla costa, a San Benedetto. «Dopo la scossa del 24 agosto alcune case erano rimaste in piedi, con quella del 30 ottobre è crollato tutto e il paese non c’è più!». L’area è stata dichiarata “zona rossa” e interdetta ai civili: «Non ci hanno più lasciato entrare e i vestiti che ho addosso me li son dovuti comperare o me li hanno donati», qualcuno mi dice. C’è stato anche chi, come Enzo Rendina, il suo paese non lo voleva proprio lasciare e si è opposto con tutte le sue forze. È stato fermato, processato per direttissima dalla Procura di Ascoli e rimesso in libertà con l’obbligo di non avvicinarsi più ad Arquata. Quella con il terremoto è una guerra senza vincitori.
Ma il grosso del problema è anche un altro. Negli anni la Protezione Civile nazionale ha ceduto in autorità a vantaggio della burocrazia. Da un lato è chiaro che devono esserci delle regole da rispettare, ma è altrettanto evidente che appunto perché si parla di emergenza la dote fondamentale è quella di essere capaci di una reazione pronta, organizzata e soprattutto autonoma. «A vedere come siamo messi vorremmo fare come in Friuli – mi dicono gli abitanti – andare a portar via le macerie da soli e ricominciare, ma oggi i tempi sono diversi. Ci hanno detto che occorre aspettare che si perfezioni il bando, quindi che si concluda la gara d’appalto che decreterà l’azienda che farà il lavoro. Poi si vedrà…».
Intanto il tempo passa e con l’avvicinarsi dell’alta stagione gli alberghi turistici della costa iniziano a storcere il naso: «Qui non ci vogliono più, al paese non possiamo tornare. Cosa faremo?», si chiedono con un misto di rassegnazione e rabbia. Anche ad Arquata aleggia lo spettro dell’abbandono del borgo da parte dei giovani che, paradossalmente, è favorito dal meccanismo di aiuto dello Stato. In pratica chi ha la casa inagibile può richiedere una “Soluzione Abitativa in Emergenza” ma essa, nella maggior parte dei casi, non è subito disponibile.
Nell’attesa il cittadino ha diverse possibilità: la sistemazione provvisoria nei container o quella in albergo. In alternativa può richiedere il “Contributo di Autonoma Sistemazione”, trovando una casa in affitto e ottenendo un contributo di massimo 900 euro al mese. «Il conto è presto fatto – ripete il vice sindaco Franchi – gli anziani che non hanno un orizzonte temporale lungo e sono attaccati al territorio scelgono principalmente le prime due soluzioni; i giovani che non potevano permettersi una casa loro e vivevano in quella ereditata dalla famiglia nel piccolo borgo, preferiscono non ricostruire, prendere il contributo e spostarsi in città, dove trovare lavoro è anche più facile». In tal modo il futuro di bellissime realtà montane sarà perso per sempre. L’Ana che ha nella tutela del territorio uno dei suoi scopi principali, metterà in campo tutte le forze di cui dispone per aiutare la popolazione e contrastare questo impoverimento.
Matteo Martin