Là dove tramonta il sole

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    Sembra un foglio scuro e stropicciato il mare questa mattina, colpa del vento di libeccio che soffia severo da sud ovest. Compare all’improvviso, dopo una galleria, lungo l’autostrada del Turchino. Percorro qualche chilometro ancora e arrivo a Savona, poi a Carcare. L’illusione salmastra svanita. Nel parcheggio della piazza principale mi aspetta Luigi Bertino, profondo conoscitore della gente e delle tradizioni scritte lungo il crinale tra Piemonte e Liguria. Da tempo mi aveva promesso qualche ora che difficilmente avrei dimenticato. 

     

    E non si sbagliava. Insieme andiamo a Plodio, piccolo borgo di nemmeno 700 abitanti. In località Colla abita Ernesto Prando, nato il 7 novembre 1919, arruolato come artigliere alpino del gruppo Pinerolo, Divisione Cuneense. Ci viene incontro la figlia Carmen. «Venite, venite dentro che qui fuori fa freddo». Ospitalità cordiale e spiccia d’una tradizione che bada all’essenziale.

    Accanto alla finestra che guarda sul cortile, seduto al caldo c’è Ernesto. Occhi vispi i suoi. Un uomo alto, le spalle quadre scolpite dalla fatica. Sul viso, baffetti bianchi appena accennati, tagliati con cura. Racconta la guerra, incalzato da Luigi: Francia, Albania e Russia. Parla un dialetto della lingua piemontese, l’aria di mare pare un miraggio quassù. Carmen mi fa un po’ da interprete, lascia che il papà termini il racconto e poi mi traduce: «Durante la ritirata, mio padre e i suoi compagni videro un’auto-carretta abbandonata.

    Era quella usata per trasportare la posta al fronte. Si avvicinarono e mio padre, tra i tanti, raccolse proprio quel pacco che sua mamma aveva confezionato per lui, facendo attenzione a non superare il chilogrammo prescritto dalla Posta militare di allora. All’interno una manciata di castagne secche, qualche zolletta di zucchero, questo paio di calze che usò anche come guanti» e accomoda sul tavolo un paio di calze in lana lavorate ai ferri. Nei suoi gesti c’è l’amore endemico delle figlie femmine verso il papà. «Ecco questa è la fotografia dei superstiti della sua batteria, la Nona». Ne conto undici, su oltre un centinaio. «Nella foto sorride» continua Carmen, «è nella sua natura. Forse anche questo lo ha aiutato, ma credo sia stata soprattutto questione di fortuna.

    Ha camminato per 42 giorni di fila, sempre verso ovest. Così gli avevano detto: qualsiasi cosa accada segui il tramonto, dirigiti là, dove il sole va a dormire». È tempo di andare, l’ultimo sguardo è per una foto di Ernesto accanto a sua moglie Ada, mancata quasi 4 anni fa. I due si guardano e in quell’immagine c’è il senso di una vita. Scendiamo in macchina fino al mare. Siamo a Finale Ligure per incontrare Albino Carbone nato a Cortemilia (Cuneo) il 24 ottobre 1919, reduce del battaglione Ceva. Medaglia d’Argento al Valor Militare.

    La figlia Orietta ha un negozio su via Mazzini e lui la mattina sta sempre lì. Entriamo. Gli occhi del colore di un seracco si fanno rossi e umidi. «Cercavamo di stare insieme noi di Finale» ripete mentre guarda le fotografie in bianco e nero della Francia, dell’Albania e della Russia. «Abbiamo camminato per giorni. Ci hanno fatto fare tanti chilometri. Nella marcia diretti al fronte eravamo uniti, schierati. Durante la ritirata, invece, non c’era ordine, noi soli cercavamo di stare vicini per aiutarci». Albino la guerra la porta addosso. In Russia perse un braccio durante l’azione che gli valse la Medaglia d’Argento. “Alpino marconista durante la permanenza in linea sul Don, si distingueva per ardimento e sprezzo del pericolo.

    Nel corso di aspro e sanguinoso combattimento, si offriva volontario per recuperare e distruggere materiali e documenti che stavano per cadere nelle mani del nemico. Benché ferito al braccio destro mentre attraversava una zona intensamente battuta, portava a compimento l’impresa e riusciva a rientrare al proprio reparto. Medicato sommariamente partecipava ai successivi combattimenti con la colonna in ritirata nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche per sopravvenuta cancrena alla ferita e per principi di congelamento ai piedi e alle mani. Ricoverato in un ospedale da campo sopportava stoicamente l’amputazione del braccio destro. Chiaro esempio di spirito di sacrificio e di dedizione del dovere”.

    Che altro aggiungere? Al rientro in Italia lo aspettavano il papà, la mamma e Ortensia che sarebbe diventata sua moglie un anno dopo, «ero quasi “partito”, ma ce l’ho fatta». Ogni uomo portava dentro di sé qualcosa di estremo, di istintivo che lo teneva aggrappato alla vita in quel luogo dove tutto era dimenticato, cacciato via dalla memoria. E oggi è faticoso lo sforzo per raccontare quel gennaio che una parola dopo l’altra, ricompare davanti agli occhi gelido e crudele come fu allora. Eppure l’umana fraternità guidò i sopravvissuti fino all’Italia che stava là, dove va a dormire il sole.

    Mariolina Cattaneo