L’amore di una vita

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    «Enrico era colto. In sua compagnia si poteva colloquiare di qualsiasi argomento perché mai lo si coglieva impreparato o senza parole. Taceva solo della Russia. Taceva la sua sofferenza lunga 142 mesi. Partì la notte di Natale del 1941 e tornò il 13 febbraio del 1954. Questa data rappresentava per lui una seconda nascita». Si potrebbe stare ore ad ascoltare la signora Imelda Tosato Reginato. Una voce musicale la sua con quel marcato accento francese che fa ruggire le r e scivola sulle c. Ecco allora che le parole si susseguono leggere e indugiano solo quando la mente ripercorre i momenti tristi, di dolore come la morte di suo marito Enrico, Medaglia d’Oro al Valor Militare, tenente medico del battaglione Monte Cervino.

     

    Tra gli ultimi a rientrare in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Racconta: «L’esistenza a fianco di Enrico non lasciava mai spazio alla noia. La sua presenza arricchiva ogni momento della vita quotidiana. Amava, una volta l’anno, radunare i suoi amici superstiti. Allora era festa grande. Legati come fratelli, felici di essere ancora vivi, trascorrevano la giornata in modo conviviale. Non mancava mai la mamma di Enrico, la signora Ida, donna forte che per dodici anni aspettò il figlio pregando, senza mai disperare. La sua attesa e la sua fede furono premiate dal Signore che la chiamò a sé nel suo centodecimo anno d’età». Riuscì ad assistere al conferimento della Medaglia d’Oro la cui motivazione racconta non un gesto d’eroismo plateale, né uno slancio istintivo di sprezzo del pericolo, molto di più.

    Un comportamento caparbio e tenace nella cura dei malati, sebbene malato fosse anche lui. Scrive in quello che possiamo considerare il suo testamento spirituale: «Più che curare, i medici e i cappellani assistevano pazienti nei quali vedevano l’immagine di se stessi! Pazienti essi stessi, dunque, che trovavano motivo di vita nell’aiuto che davano a chi insieme soffriva perché capivano che il balsamo che allevia tutti i mali è sempre e solo quello insegnato da Cristo: l’amore». Reginato continuò ogni giorno, ogni ora, per sette lunghi anni a svolgere ciò che era divenuto l’unico appiglio alla realtà insieme alle amicizie strette con i prigionieri. Dal 1950, dopo il primo processo, venne condannato ai lavori forzati. Le sue virtù, i suoi studi non servivano più: erano azzerate attitudini e abilità. Per caricare sabbia su vecchi autocarri, nel campo di Providanka alla periferia di Stalino, non occorreva nulla.

    Nessuno si sentiva più uomo, offeso nella dignità, privato della propria unicità, durante la marcia quotidiana un solo passo a destra o a sinistra, fuori dalle righe, avrebbe comportato la fucilazione sul posto per mano delle guardie, perché considerato tentativo di fuga. Erano abbandonati i nostri prigionieri in terra straniera. Si domandavano le ragioni che non permettevano al governo italiano di adoperarsi in maniera decisa e risolutiva. Scrive Reginato nel suo libro “12 anni di prigionia nell’URSS”: «È possibile che il governo del mio paese non possa intervenire per cancellare questa iniquità? È possibile che nell’URSS non accadano mutamenti tali da sconvolgere o modificare tutta la politica fin qui seguita dal governo di Mosca? Il mondo occidentale resterà impassibile? Non protesterà contro queste barbare violazioni dei diritti umani?». Sembra di leggere gli articoli di cronaca recente sull’irrisolta questione dei Marò.

    La storia si ripete, gli uomini si dimostrano degni mentre il loro Paese chiamato a difenderli strenuamente, tace. Ma Enrico Reginato quando finalmente mise piede in Italia e poté riabbracciare la sua mamma Ida e i suoi cari, perdonò ogni ingiustizia. Fu capace di ricominciare a vivere, una seconda volta. Conobbe Imelda, ebbero due figli Eugénie e Giovanni. Lavorò dal 1957 alla direzione generale di Sanità della Regione militare nord-est. Nominato tenente colonnello venne trasferito al Comando generale dell’arma dei Carabinieri nel febbraio del 1963 dove fu nominato dirigente del Servizio sanitario, carica che ricoprì fino al 1970. Colonnello dal 1967 venne trasferito al Collegio medico legale di Roma e, successivamente, alla Scuola di Sanità militare di Firenze.

    Promosso tenente generale fu collocato nella riserva per anzianità il 6 febbraio 1976. Restò sempre accanto agli Alpini, pronto ad aiutare chiunque tra loro avesse bisogno di un lavoro, di un favore, di una parola di conforto. La domenica quando i bimbi si svegliavano e domandavano: «Papà? Dov’è papà?», «Papà è con gli Alpini» rispondeva loro la mamma. Succedeva che a tavola arrivasse una pietanza prelibata ed ecco allora che, con innocenza, forse d’istinto, esclamava: «Ah se lo avessimo avuto in Russia!». Uomo mite e buono che mai parlò della guerra se non con chi come lui, ne aveva coscienza, ne conosceva i patimenti. Si ammalò nel 1989. Da medico sapeva bene di non avere scampo, consapevole che la malattia lo avrebbe preso per sempre. Ma non ne parlava. Continuava nella sua vita d’ogni giorno. Incontrava gli Alpini, prendeva parte alle cerimonie, si dedicava alla famiglia. Nelle orazioni mattutine e serali che recitava con i figli e la moglie, terminava sempre con una invocazione alla Vergine: «Salva l’Italia e il mondo dal comunismo ».

    Domando a sua moglie: «Chi sono per lei gli Alpini? quale significato hanno?». «Ora mi commuovo», si concede una pausa. Poi continua «Sono tutto. Cerco di partecipare più che posso alle cerimonie alpine, lo faccio al suo posto. Cerco di compiere quanto è rimasto da realizzare dei nostri desideri, mantenendo vivo il suo ricordo nel mio cuore, in quello dei nostri figli e dei nipotini Enrico, Bernadette, Julia e Margherita». E in quello degli Alpini, aggiungo io, che mai lo dimenticheranno.

    Mariolina Cattaneo

    LA SIGNIFICATIVA MOTIVAZIONE DELLA MEDAGLIA D’ORO

    «Ufficiale medico di battaglione alpino già distintosi per attaccamento al dovere e noncuranza del pericolo sul campo di battaglia, per oltre undici anni di prigionia fu, quale medico, apostolo della sua umanitaria missione e, quale ufficiale, fulgido esempio di fiero carattere, dirittura morale, dedizione alla Patria lontana e al dovere di soldato. Indifferente al sacrificio della propria vita, si prodigò instancabilmente nella cura dei colpiti da pericolose forme epidemiche fino a rimanere egli stesso gravemente contagiato. Con mezzi di fortuna che non gli offrivano le più elementari misure precauzionali, non esitò ad affrontare il pericolo delle più gravi infezioni, pur di operare ed alleviare le sofferenze dei malati e dei feriti affidati alle sue cure. Sottoposto, per la sua fede patriottica e per l’attaccamento al dovere, prima alle più allettanti lusinghe e, subito dopo, a sevizie, minacce e dure punizioni, non venne mai meno alla dignità e alla nobiltà dei suoi sentimenti di sconfinato altruismo, altissimo amor di Patria, incorruttibile rettitudine, senso del dovere. Russia, 1942-1954».