I ramponi stridono sul ghiaccio vivo, lo graffiano senza cautela mentre il lento procedere della colonna supera il piano e punta un valico ancora miraggio, nel silenzio vuoto di quota tremila. Lui, il ghiacciaio, antico, imperturbabile maestro s’eleva al cielo, abbraccia la terra e si lascia percorrere porgendo la schiena carica di neve fresca. Peregrinare sui sentieri in costa, oltre i valichi e i passi imbiancati. In colonna, legati l’uno all’altro. E infine avvistare di lontano la meta, una sorta di traguardo spirituale che pone fine alla fatica, alla stanchezza e mette a tacere i disagi. Accade così ogni anno, gli ultimi giorni di luglio. Ma non questa volta.
La montagna ha cambiato i piani, disfatto i programmi imbastiti mesi prima: ha lasciato che giovedì e venerdì i pellegrini iscritti a questa cinquantunesima edizione raggiungessero i diversi rifugi collocati nelle valli che salgono a cingere il più vasto ghiacciaio italiano. Solo tre colonne, due della sezione ANA di Trento e una della sezione di Vallecamonica erano al rifugio “ai Caduti dell’Adamello” a quota 3.040, costruzione aggrappata al fianco della Lobbia Alta.
Il resto dei pellegrini, invece, venerdì riposava nei rifugi posti più sotto, consumando la cena, sul far della sera. Attorno a un tavolo, un’intimità insolita legata alla fatica condivisa, una serenità che prende forma nei racconti, nelle confidenze, nei ricordi di salite passate. Sono le amicizie di vetta che la montagna riserva ai suoi viandanti. Una canta, un’altra ancora, sembra notte fonda, invece sono appena passate le dieci quando in camerata si spegne l’ultima luce. D’un tratto un bagliore poi un colpo, come l’eco di un boato; passa qualche istante prima di comprendere cosa stia accadendo: sono le cinque e il temporale a tremila metri è neve che cade fitta.
Al rifugio “ai Caduti dell’Adamello” si torna a dormire, non vi è alternativa. Il pensiero corre agli altri pellegrini in fermento nei rifugi più a valle, pronti a raggiungere in cammino, l’altare del Papa per assistere alla Messa. Gli alpini della colonna sei, partiti alle due e mezza di notte dal rifugio Carè Alto, hanno arrestato il loro incedere in prossimità del ghiacciaio: il temporale imperversava, metteva paura. Quelli del rifugio Garibaldi, del Mandrone, del Prudenzini, del Val di Fumo, della piana di Bedole erano in attesa così come i capi colonna, le guide e i ragazzi del Soccorso Alpino. Ma la pioggia anziché dare tregua, riversava i suoi scrosci sulla montagna. Sempre più violenti. Arrivava così la rinuncia definitiva: “Hanno chiamato dal Garibaldi: non partono. E nemmeno dal Mandrone. Non partono gli elicotteri dal Tonale. Non parte nessuno, giù piove e qui nevica”.
Nella stanza da pranzo del rifugio “ai Caduti dell’Adamello”, monsignor Luigi Bressan vescovo di Trento, celebra la Messa per i pellegrini delle tre colonne che hanno passato lì la notte. Due piccole candele si specchiano in una fotografia che ritrae Papa Giovanni Paolo II, unico ornamento di un altare arrangiato con cura.
Il tempo di uno scatto, poi giù, le spalle al Cavento e gli scarponi che sprofondano nella neve fresca. Giù lungo la val di Genova fino a Tione di Trento, paese che ospiterà la cerimonia conclusiva il giorno successivo. Un giorno di sole che ha visto tutti ritrovarsi: i pellegrini, le autorità, il picchetto armato del 2º reggimento genio guastatori, il generale Primicerj, il presidente Favero con i consiglieri nazionali e il cardinale Re. Labaro, vessilli e gagliardetti insieme, ancora una volta. Negli interventi delle autorità il rammarico di non essere giunti in vetta per la consueta cerimonia del sabato. “Mi rivolgo soprattutto ai pellegrini che hanno affrontato i sentieri di queste meravigliose montagne testimonianza presente delle sofferenze passate”, così il generale comandante le Truppe alpine, Alberto Primicerj.
Parole in armonia con quelle pronunciate dal presidente nazionale Sebastiano Favero poco dopo. “A voi il mio grazie, pellegrini dell’Adamello. Attraverso la fatica, avete saputo celebrare la memoria, elemento fondamentale per poter guardare al futuro fermi sui nostri valori, sull’impegno nel tramandare, testimoniare, condividere questo spirito che ci rende unici”. Poi la Messa celebrata dal cardinale Giovanni Battista Re che ha ricordato la figura di Giovanni Polo II, il Papa santo. “Un uomo straordinario. Un gigante mistico che durante le passeggiate desiderava pregare in solitudine, contemplando la bellezza delle vette.
Egli resterà per sempre, un segno nel mondo”. La Preghiera dell’alpino recitata con dolcezza ha preceduto la benedizione solenne del cardinal Re, prologo di giorni intensi, già ricordo indelebile. Protagonista la montagna, unica regista. Essa ha deciso che fosse il pellegrinaggio dei discepoli dell’Adamello, quelli che quassù in colonna un passo dopo l’altro, vengono da anni. Questi uomini sono stati premiati: con lo spirito si sono ritrovati nell’ombra fredda del gigante di granito che già conobbe e accolse i loro Padri.
Lontani un secolo dalla guerra, più vicini alla Croce del Papa santo che su queste rocce spigolose s’abbandonò alla preghiera. I pellegrini lo hanno ricordato nel lungo, silenzioso incedere sui sentieri divenuti ora un comune solco. Legati ad un’unica cordata, hanno riscoperto l’incanto di vivere. Di essere alpini.
Mariolina Cattaneo