Il cammino senza fine di don Carlo

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    «Don Carlo, tutti gli alpini anche quelli che non sanno pregare, pregano per te». Qualche giorno prima di morire, don Carlo Gnocchi ricevette la visita di Giuseppe Novello che nell’andarsene, fece con la mano un cenno, come una carezza disegnata nell’aria e accompagnata da queste parole. Una sentenza vera che ogni alpino avrebbe sottoscritto. Lo conobbero e lo amarono fin dall’Albania quando partì volontario come cappellano della Julia per portare Dio in guerra. 

     

    Tra crudeltà e disperazione, don Carlo pregava, celebrava la Messa, si frapponeva senza indugi tra l’animo del moribondo e la morte, in quell’ultimo istante, a cogliere una confessione o un bisogno. Poi venne la Campagna di Russia. Nell’orizzonte senza confini della steppa, una voce lo chiamò. Era un uomo, prossimo a Dio: «Il mio bambino… Lo raccomando a lei, signor cappellano». «Stai tranquillo, ci penserò io». Fu il seme di quella promessa che silenzioso cominciò a crescere nel cuore di don Carlo, fino a diventare suo granitico intendimento: darsi agli altri, a ogni uomo percosso dalla sofferenza. Agli orfani, ai bambini segnati per sempre dalla guerra.

    Questa fu la sua vita. Il volto magro, affilato, dagli zigomi pronunciati, s’apriva di continuo in un sorriso sereno degli occhi, privilegio di coloro che si donano senza condizioni. Il colorito pallido e il corpo asciutto sopravvissero miracolosamente alla lunga ritirata di Russia: la salute cagionevole che lo accompagnò per tutta la vita dovette soccombere alla sua volontà salda di tornare a casa. Allora quel seme sbocciò e divenne la Fondazione Pro Juventute per minori e invalidi di guerra, oggi Fondazione don Carlo Gnocchi.

    Una manciata di anni dopo che la straordinaria macchina si mise a girare, il 28 febbraio 1956, don Carlo morì d’un male incurabile. Ma non fu una partenza. I grandi uomini, coloro che hanno lasciato un segno di bene, una grandezza tangibile e presente, non muoiono mai. Sono ancora lì a indicarci il cammino, a toccarci la spalla come ammonimento per le nostre quotidiane miserie. E non con la presenza fisica, ma nella comunione dello spirito.

    Quell’amore che i suoi mutilatini, gli orfani, i sofferenti, gli alpini in guerra e in pace hanno provato verso don Carlo ha attraversato un secolo e fondendosi con il ricordo di chi lo ha incontrato, è oggi l’anima di quell’opera che lui amava definire, con l’umiltà propria dei Santi, “la mia baracca”.

    Mariolina Cattaneo