I giovani e la montagna

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    di Umberto Pelazza

    In principio è il movimento, la primavera della vita, il momento dello slancio, quando l’essere umano è indotto a sollevarsi da terra: un balzo verso l’alto è la forma elementare di realizzazione e di gioia, la stessa del bambino innalzato sulle braccia paterne, appagato nella sua inconscia ambizione: ‘Sono bravo come te’. Pressanti i perché a occhi sgranati durante la prima camminata a famiglia riunita, inevitabili i confronti in età scolare con i coetanei, fieri tutti del casco nuovo di zecca: paesaggio e fiori non interessano, la fatica fine a se stessa non è ancora concepita.

    La giornata in montagna viene ritmata da soste e momenti ricreativi, che si alternano con le immancabili sorprese: una cascata, le mucche all’alpeggio, un camoscio in fuga, un ruscello da attraversare a saltelli, le prime chiazze di neve su cui rotolarsi, fino all’indimenticabile notte in rifugio. Le pareti di casa sono lontane e le scomodità non mancano: ‘Guardiamo cosa fanno i grandi’. Nasce il senso di responsabilità e di reciproca fiducia. Per il francese Samivel, attento e arguto illustratore di vita alpina, l’istinto ascensionale rimane particolarmente vivo nell’adolescente, teso alla ricerca della sua individualità, a volte in contrasto con le persone che lo circondano, siano pur esse familiari o educatori. Catherine Destivelle fu avviata all’alpinismo da genitori decisi a tenerla lontana dalle discoteche: a 16 anni era capo cordata sulla diretta del Petit Dru e pochi anni dopo farà sua la prima femminile in solitaria sulla tremenda Nord dell’Eiger.

    Ancora giovincello, Paul Preuss obbedì invece a un richiamo mentale, rifiutando le invitanti aperture commerciali della famiglia. Non ancora maggiorenne, il valdostano Amilcare Cretier aveva già scalato la Nord Est della Grivola, la Nord Ovest del Gran Paradiso e la Vierge des Dames Anglaises: quando a 23 anni cadde sul Cervino aveva già aperto più di 50 vie nuove. Ispirato da un insolito Goethe (‘È la ripidezza, la verticalità che sembra vadano a genio alla gioventù: attaccarle, darle la scalata, conquistarle sono un godimento per le membra giovanili’), l’illustre fisiologo Angelo Mosso definisce l’alpinismo il primo degli sport, da raccomandarsi in modo speciale alla gioventù: ‘Nulla dà maggiore impulso all’attività individuale e alla formazione del carattere’.

    La seconda metà dell’Ottocento, pervasa ancora di romanticismo risorgimentale, ci ha lasciato l’esortazione di Quintino Sella, uomo politico e fondatore del CAI: ‘Correte alla montagna, o giovani animosi, dove troverete bellezza, forza, sapere, virtù, il coraggio per sfidare i pericoli e la prudenza per superarli’. Giunse al punto di auspicare, per ogni giovane abile al servizio militare, l’obbligo di scalare il Dente del Gigante. Un alpinismo, quindi, che già si differenziava dagli altri ‘diporti’ per l’importanza dei fattori spirituali che, fin dai primordi, avevano spinto i nostri antenati a ricercare la natura e la divinità oltre l’orizzonte collinare (ancora oggi c’e chi affronta l’ignoto con la segreta speranza di scoprire in qualche angolo nascosto le ‘tracce del primo mattino del mondo ).

    Al desiderio religioso dell’altezza, rimasto nell’inconscio comune, si sovrapporranno gli istinti esplorativi e scientifici, la lotta per la conquista, l’interesse sportivo e lo spirito di competizione, teso soprattutto al superamento di se stessi. Ma oggi i crescenti richiami della vita cittadina, imperniata sul concetto della velocità e della fretta, fattori di irrequietezza e nevrosi, impediscono alle giovani generazioni di accostarsi ai ritmi della natura, degli animali, delle piante e di provare quell’aumento di vitalità ignoto quando si è mescolati alla folla e quando gli spostamenti avvengono in auto, in moto, in aereo, cioè da seduti, lontani dall’aria libera, dal sole pulito, dal camminare per il solo piacere di farlo.

    Eppure il contravveleno è alla portata di tutti, suggerito sette secoli fa dall’eterno Dante: Perché non sali al dilettoso monte ch’è principio e cagion di tanta gioia? , bonariamente volgarizzato per il nostro quotidiano dalle rime meno auliche del decalogo dell’alpinista: Studia guida, carta, marcia e soste dove l’acqua trovar, dove il buon oste. Nel sacco il necessario, soldi in tasca crucci a casa e tappa ben la fiasca , librandosi poi nel sublime del 10º comandamento: ‘In marcia tendi l’animo all’invito di quei silenzi, ascolta l’infinito’.

    Molti attraversano la loro verde età senza mai misurarsi seriamente con se stessi. L’alpinismo lo permette, con un potere educativo che nessuna scuola può offrire: la fiducia e l’orgoglio spirituale della vetta raggiunta. Fin dove posso arrivare? . Gioco sportivo inimitabile per il giovane apprendista, che solitamente non tarda ad avvertire quanto le sue risorse si manifestino superiori al previsto e come facilmente possa svilupparsi lo spirito di solidarietà, che nell’amicizia della cordata annulla di fatto le categorie sociali.

    La montagna non è un nemico da vincere, ma un ambiente col quale, già dai primi approcci in verde età, stipulare un patto di convivenza: regolata da sempre con leggi immutabili, accoglie chi a lei si avvicina con rispetto e umiltà, rinunciando a certe abitudini di comodo, una piccola tassa da pagare ampiamente ricompensata dalle sensazioni che si provano.

    Per quelli che lo giudicano esclusivamente dall’esterno, l’alpinismo è un modo complicato per giocarsi la pelle: il rischio è una delle sue componenti, è vero, ma chi mai gradirebbe una minestra senza sale?Da non dosare, però, che a ragion veduta, memori sempre del saggio decalogo: Pietra non far cadere, saggia l’appiglio sol chi esperto si sa sfidi il periglio . Il gioco non vale la candela , affermava chi di candele s’intendeva, il prete alpinista Joseph Henry, che definiva pazzia e assurdità toccare per intemperanza giovanile le punte estreme del costi quel che costi e limitava al livello dei fiori l’escursionismo femminile.

    Oggi la sua pipa tremerebbe sgomenta alla vista di certe virago sospese seminude sugli strapiombi del free climbing! Che vetta non ha e alpinismo non è, ma arrampicata sportiva, puro divertimento da palestra. Specialmente fra gli adolescenti il divertimento rappresenta un’istanza fondamentale: La montagna è un signore da servire in letizia , diceva Massimo Mila. Divertitevi pure gli faceva eco un anziano professore di liceo, rivolgendosi ai suoi studenti intenti a programmare una gita domenicale, ma verrà il momento in cui dovrete operare una scelta fra la montagna di plastica del fine settimana e quella vera, intesa cioè nella sua realtà globale: aspetti storici, geografici, flora e fauna, clima, abitanti di ieri e di oggi, risorse, forme abitative .

    Quanti saprebbero spiegare il miracolo di fiori sgargianti e profumatissimi, quanti l’apparizione invernale di animali dal candido mantello? Perchè in autunno il larice perde gli aghi e l’abete no?Che cosa potrebbe raccontare quella baita in rovina? Perchè e in che modo i ghiacciai si muovono?E infine: dove comincia la vera montagna?

    Dove occorrono quattro arti per salire, risponderebbero i crodaioli incalliti: un punto di vista prettamente scimmiesco, come se boschi, sentieri e pascoli costituissero res nullius, una fascia intermedia in franchigia, sottoposta agli oltraggi di chi è solito firmare il proprio passaggio con le impronte dell’ignoranza e della sciatteria.
    Memento, sempre: Da imo a sommo la montagna è tempio ben accetto t
    u sei, non farne scempio .