I cappellani militari in guerra e in pace

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    L’esigenza di assistere spiritualmente i militari ha origini molto antiche: Augusto, primo imperatore romano, riunì nella stessa persona la dignità militare dell’impero con quella religiosa del pontifex maximus. Con Costantino, nel 300 avanti Cristo, a ciascuna legione venne assegnato un sacerdote e una tenda per le liturgie e la preghiera. Essi attraversarono la storia: videro inginocchiarsi fieri condottieri, confessarono leggendari sovrani. Conobbero la parte più fragile d’ogni animo, non attraverso la forza delle armi, propria della guerra, ma attraverso quella più potente e universale della preghiera.

    Nell’età moderna, li troviamo tra le camicie rosse di Garibaldi e ancora nei ranghi degli eserciti delle due guerre mondiali. La figura del prete, insomma, è legata a quella del soldato da un vincolo molto antico. Un elenco di cappellani militari, privo di cenni alla loro personalità, ne sminuirebbe il ricordo. Così mi par giusto citare due accadimenti, legati a due cappellani, l’uno della grande guerra e l’altro del secondo conflitto mondiale a ricordo di tutti. Risulterà maggiormente chiaro il senso del loro essere là, in trincea, accanto ai soldati, nella veste di consiglieri e consolatori.

    Don Piero Zangandro, cappellano del 7° reggimento alpini nella grande guerra, a una domanda provocatoria di un suo alpino che suonava più o meno così: “La Madonna della Croda, don Piero, è quella che si invoca o quella che si mòccola quando la scalata della roccia diventa maledetta?” aveva risposto: “Mascalzoni! L’imprecazione, tirata quando si è proprio in bisogno e con cuore che sia puro, non solo viene perdonata, ma è presa lassù come una pura e semplice invocazione”. Don Piero parlava poco e faceva molto. Educato al vivere semplice di montagna, sapeva esser guida per i suoi, ammonendoli talvolta, ma più spesso sfoderando quel suo sorriso indulgente capace d’acconsentire anche a una barzelletta scollacciata.

    Di tutt’altra personalità era, invece, don Secondo Pollo, mite e gracile nell’aspetto. Morirà sul fronte greco albanese, l’indomani del giorno di Natale del 1941. Egli, cappellano del Val Chisone, cadeva dopo essere accorso a soccorrere un ferito. Ma non morì subito: quando i suoi alpini lo recuperarono era ancora vivo. Le mani poggiate sul petto stringevano la corona. Alzando gli occhi, con un filo di voce disse: “Vado con Dio, che è tanto buono”. Per i suoi lo era già in guerra, per la Chiesa divenne Beato il 24 maggio 1998.

    Ebbene, sembra impossibile immaginare un battaglione senza il suo sacerdote. Egli rappresentava il conforto in carne e ossa, l’appendice di Dio. E tutti comprendevano, giorno dopo giorno, quanto valesse di più, nel momento della disperazione, qualche passo del Vangelo piuttosto che tante retoriche esortazioni di generali strateghi, lontani dal fronte e con un tetto sopra la testa. (m.c.)