I Caduti della guerra del carbone

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    DI CESARE LAVIZZARI

    La miniera di Bois du Cazier a Marcinelle, anche tirata a lucido, resta pur sempre un monumento all’orrore, un macigno sulla coscienza della civiltà occidentale, un vero e proprio lager. Questa è la sensazione che si prova a varcarne i cancelli. Immaginarla, poi, in piena attività, unta e sporca dal materiale estratto, con il continuo via vai di minatori che a turni si calano per oltre 1000 metri a lavorare in ginocchio o sdraiati in cunicoli dove nemmeno i topi hanno l’ardire di entrare, ferma davvero il fiato in gola. Quanta sofferenza, quanto dolore

    Oggi, dopo un’importante operazione di recupero la miniera potrebbe persino sembrare bella, ma conserva intatta quell’opprimente aria di tragedia della quotidianità vissuta nell’indifferenza del mondo. Oggi ci sono i fiori, c’è la fanfara, ci sono gli alpini con il Labaro, i vessilli e i gagliardetti, ci sono i sindaci con le fasce tricolori, le autorità, ma ci sono anche loro: i minatori, con le loro tute blu, il fazzoletto al collo, i pantaloni legati alla caviglia, il caschetto e la lampada a petrolio. Sono vecchi ormai. I segni di quella vita nei loro occhi sono evidenti. Ma sono lì.

    Per loro è un dovere semplice e naturale quello di preservare il ricordo dei fratelli caduti nel tragico incidente del ’56 e con loro anche le centinaia di migliaia di uomini che alla miniera hanno dato la parte migliore della loro vita. E chi meglio di noi può comprendere l’ansia di preservare il ricordo di tanto sacrificio. 15 20 30 anni di miniera, nel silenzio del mondo e perfino di quella Patria che da quel lavoro traeva importanti aiuti economici.

    Raramente ci si ricorda, infatti, che l’Italia, grazie al lavoro e al sacrificio di questi uomini, si assicurava forniture di carbone gratuite in misura di una tonnellata per minatore. Ed i minatori sono lì, con i loro occhi tristi ma l’aria di chi sa di aver fatto ciò che doveva e anche molto di più. Non vogliono nulla. Solo che li si ricordi. Non possono pensare che tanta sofferenza cada nell’oblio. È la stessa ansia dei reduci. Del resto anche questi minatori sono reduci.

    Reduci di una guerra combattuta con estrema durezza contro un nemico spietato ma travestito da persona perbene. E loro questa guerra l’hanno combattuta. L’hanno fatto per le loro famiglie, nella speranza di raggiungere il miracolo di una quotidianità che in Patria era negato. L’hanno fatto, certo, per assicurarsi un pezzo di pane, ma nel contempo hanno contribuito più di tanti altri a ricostruire un Italia distrutta dalla guerra, un’ Italia che aveva bisogno anche di questo sacrificio.

    Non sono scappati, non hanno chiesto sconti. Hanno tenuto duro anche sapendo che l’Italia li aveva dimenticati. Ogni mattina sono scesi nelle gallerie a lavorare come topi, dove anche l’aria doveva essere spinta per entrare quasi si rifiutasse. E guai se non terminavano il turno con la quota stabilita: in quel caso niente cibo. E la sera tornavano a casa distrutti dalla fatica di un lavoro maledetto, in una baracca di metallo recuperata dai campi di concentramento militari. E quello che non aveva fatto la miniera faceva l’umidità. Ma a dar loro la forza c’erano i pochi ricordi di una casa lontana, di una vita diversa e tra questi, in tanti casi, c’era anche il nostro cappello.

    Oggi tutto è pulito e colorato proprio là dove il carbone sporcava tutto e colorava di nero persino i sogni di un futuro migliore. Ma loro ce l’hanno fatta. Oggi sono rispettabili cittadini del Belgio ed i loro figli sono perfettamente integrati in quella comunità nazionale. Non hanno dimenticato l’Italia verso la quale continuano a sentire quella tenerezza e quell’affetto che a loro è stato negato. Oggi non sono più carne da galleria . Sono uomini.

    Qualcuno di loro è anche alpino e non ha mai dimenticato la penna. Il cappello lo ha custodito come la più sacra delle reliquie e oggi lo porta con quella stessa baldanza con la quale lo aveva ricevuto a vent’anni e non immaginava quale destino lo stesse attendendo. Oggi, nel giorno del ricordo, i vecchi minatori sono lì e nei loro occhi si legge evidente la gratitudine. Gli alpini ricordano i loro morti a Marcinelle e con questi il sacrificio di centinaia di migliaia di minatori che il destino ha designato quali vittime inconsapevoli della tragica guerra del carbone. Ricordano i morti nella disgrazia dell’8 agosto 1956 ma anche quanti hanno superato le decine di anni di sacrificio in quelle gallerie che li hanno minati nel fisico ma non nello spirito.

    Gli alpini ricordano e loro sono commossi. E nel momento più solenne del ricordo delle vittime di quel tragico 8 agosto 1956, la fanfara di Borsoi, mossa da un automatismo più che comprensibile, intona le note del Piave. Per un attimo c’è imbarazzo: il Piave si suona per i caduti in Guerra non per le vittime del lavoro. Ma nessuno si scompone ed un senso di serenità pervade tutti quanti. Non era forse una guerra quella che ha macinato tante giovani vite in quelle miniere? Siamo certi che il generale Cantore non solo avrà capito, ma ben prima di noi, avrà accolto i Caduti di Marcinelle in quello speciale posto del Paradiso dove riposano gli alpini caduti