Finalmente insieme

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    2030

    Sono immagini in bianco e nero quelle che riconducono la mente di ognuno di noi alla Campagna di Russia. Figure irriconoscibili, avvolte da coperte, pastrani, lembi di stoffa incapaci di contrastare il gelido inverno del 1942 che s’affacciò su un gennaio altrettanto tragico. Figure come sospese tra terra e cielo in un infinito bianco, freddo, surreale. Orizzonti che continuano oltre il campo visivo, senza limite alcuno. Paesaggi piatti, rinsecchiti e sempre uguali. Non un’altura. Quei ragazzi galvanizzati da una propaganda menzognera, partirono con la tradotta a luglio: cominciava così la loro vicenda in terra russa. Più il treno macinava chilometri, più cresceva negli animi la sensazione che da quei luoghi fosse impossibile fare ritorno.

     

    Racconta così Giulio Bedeschi in “Centomila gavette di ghiaccio”, lo stordimento generale che prese tutti i suoi fratelli della Tredicesima quando il capitano Ugo D’Amico che nel libro diventa Ugo Reitani, avvisò del perentorio cambio di programmi. Gli alti comandi che avevano millantato uno spiegamento di forze sul Caucaso, cambiarono incuranti i loro piani. Niente impiego in montagna, ma un trasferimento a piedi di uomini, mezzi e muli verso il Don.

    Era questo il destino della Julia e delle altre Divisioni alpine. Il sole accompagnava le nove, dieci ore di marcia quotidiane verso l’ansa del grande fiume. Un caldo prepotente avvolgeva la colonna; i nostri avanzavano nella steppa polverosa su un sentiero largo qualche metro, lungo all’infinito, sempre uguale, circondato da campi di girasoli d’un giallo acceso che si faceva accecante nelle lunghe marce. Agglomerati di case dal tetto di paglia punteggiavano, seppur di rado, la steppa monotona; attorno alle isbe capitava di vedere vecchi, donne o bimbi rimasti lì come abbandonati, strappati agli uomini vigorosi ormai al fronte a combattere.

    Un quadro di vita contadina, dove i colori si mescolano come in un dipinto di Turner: il cielo diventa terra in un orizzonte impercettibile, il bagliore dorato dei girasoli si confonde con la luce accecante del sole. E da lì a qualche mese, un alone bianco di neve e ghiaccio avrebbe offuscato tutte le cose, seppellendo ogni speranza, ogni soldato caduto. Ma non la ferma volontà di fare ritorno. Gli uomini laggiù confinati cercarono di scandire lo scorrere del tempo dividendosi i compiti, creando una comunità. Vissero come una famiglia vincolata da un affetto spontaneo e da essa trassero la forza necessaria per andare avanti.

    Costruirono trincee, le allestirono, diedero ordine e metodo, parteciparono alla Messa e trovarono in quella morsa invisibile che si faceva via via più stretta, momenti per sorridere, alle volte persino ridere. Come la Tredicesima batteria del Conegliano, un piccolo reparto del Corpo d’Armata italiano in Russia. La sua storia è tuttavia riconducibile a quella di molti altri uomini che si trovarono a vivere e combattere in una landa desolata. Nelle figure di D’Amico e di Bedeschi ritroviamo i morti e i reduci. Coloro che si spensero di stenti o d’un colpo di fucile e i destinati a fare ritorno. Mutati per sempre. Ugo e Giulio sono una parte di quel tutto. E questa è la loro storia.

    Mariolina Cattaneo


    La Tredicesima batteria

    Il 29 dicembre 1990 il capitano Ugo D’Amico Reitani (13ª batteria, gruppo Conegliano, 3º reggimento Artiglieria alpina, Divisione Julia) era appoggiato a una colonna vicino all’altare maggiore del duomo di Verona. Nel duomo entravano alpini anziani con il cappello consumato e la penna fuori ordinanza, alpini più giovani grandi e grossi e lo sguardo un po’ impacciato, generali con le penne bianche, gli alpini di leva del coro della Julia, stendardi carichi di medaglie. Il capitano Reitani guardava il funerale del suo ufficiale medico, il tenente Giulio Bedeschi. «Ciao Giulio» gli disse quando se lo vide vicino. «Finalmente – rispose Bedeschi – sono 47 anni che non ti vedo!». «Lo sai che sto lontano – disse Reitani – hai raccontato così bene il mio viaggio».

    «Mi sei mancato moltissimo. Ma sei rimasto lo stesso, sei un ragazzino!». Reitani aveva ventotto anni, Bedeschi settantacinque. «Scusa per la divisa – disse il capitano – Non ne ho più avuta una nuova». Portava un vecchio cappotto grigio-verde foderato di pelliccia, un paio di valenki, gli stivali russi imbottiti di feltro, un elmetto un po’ scolorito, lo zaino dietro la schiena. E sul cappotto c’erano tracce di neve e un foro vicino a una spalla. Il coro della Julia cantava “Stelutis alpinis”. Bedeschi era commosso.

    «Ugo, mi sembra di sentire i canti nel bosco di Argos, vicino al mare». «Era proprio in questi giorni. Era il ’41 e la notte di Natale il sergente Bartolan ci aveva portato un gavettino di cognac con gli auguri della batteria». Il generale comandante il Corpo d’Armata Alpino e i generali comandanti le Brigate Alpine stavano intorno al feretro coperto di fiori rossi. Reitani sorrise: «Come sei diventato importante! ». «Ugo – rispose Bedeschi – loro non lo sanno, ma sono qui anche per te». Il capitano lo guardò con molta tristezza: «No, Giulio, con me sono rimasti solo gli artiglieri morti. A proposito, sai che oggi è quasi un anniversario?».

    Reitani, dopo l’8 settembre, era tornato volontariamente in Russia e il 28 dicembre 1943 era caduto nei pressi di Kiev. «Ugo, perché l’hai fatto?» chiese il tenente. «L’hai già scritto tu – rispose il capitano – per stare vicino ai miei alpini». «Ti ho invidiato, lo sai?» disse Bedeschi. Il coro della Julia ora cantava “Nikolajewka”. Reitani e Bedeschi tacevano. Vedevano una lunga discesa innevata, in fondo una valletta, il binario della ferrovia, le isbe del paese e una chiesa. Gli alpini della Tridentina che andavano a morire sul terrapieno della ferrovia, i russi che falciavano con barriere di fuoco. La sera che calava col gelo della morte. Il generale Reverberi, in piedi su un carro armato, che grida “Tridentina avanti!”.

    Gli alpini, armati e disarmati, che calano urlando dal costone, si lanciano sui cannoni fumanti, travolgono le difese. Vedevano la neve rossa e sentivano gridare i feriti. Officiava Don Franzoni, Medaglia d’Oro e reduce di Russia. «Mi ricorda il cappellano della notte di Natale davanti a Novo Kalitwa » osservò Reitani.

    «Sì – rispose Bedeschi – ma quello pregava più in fretta perché gli alpini stavano in ginocchio sulla neve e c’erano 42 gradi sotto zero». E appena finita la Messa vennero i russi. «Ma non passarono» disse Bedeschi con orgoglio. Reitani ne incrociò lo sguardo: «Sei ancora un novellino – sorrise – qui non siamo più orgogliosi». Ora il Presidente dell’Associazione Alpini ringraziava Bedeschi per ciò che aveva fatto e per ciò che aveva scritto. «Anch’io ti ringrazio – disse il capitano – per avermi dedicato quel libro». «Eravamo fratelli» rispose il tenente.

    E i due rividero la sigaretta divisa fra loro a Golubaja Krinitza quando i russi erano prossimi ai pezzi, le munizioni erano finite e sulla soglia della morte la Julia era arrivata a salvarli. Bedeschi sentì la voce di Reitani che a Jvanowka gli diceva: «Ho il rimorso di averti condotto qui» e la propria voce rispondere «Ho voluto venire io». Una sola riga di trecento uomini distesi sulla neve era l’unica difesa di Jvanowka. I tedeschi si ritiravano, ma il maggiore Amerri aveva ordinato: «Restiamo sul posto. Questo è stato l’ordine ricevuto in partenza». I russi arrivavano e gridavano. «Addio Giulio», aveva detto Reitani stringendo la mano del medico con grandissima forza. «Addio Ugo – aveva risposto Bedeschi – siamo stati fratelli». Le voci sommesse del coro cantavano di mille croci, di alpini che avanzano come angeli bianchi. «Sono canzoni nuove – osservò il capitano – dobbiamo impararle anche noi».

    Il coro cantava ancora mentre li feretro usciva dalla porta principale. Dal piazzale giunse uno squillo di attenti. «Vieni – disse Reitani – ho una sorpresa per te». Uscirono da una porta laterale che dà su una strada minore. Su questa strada, in formazione allungata perché la via è un po’ stretta, era schierata la 13ª batteria. Non solo gli ottantadue uomini e i ventisei muli usciti da Nikolajewka, ma tutti i suoi effettivi, duecentotrenta uomini, centosessanta muli, quattro cannoni. Le uniformi erano stinte, ma i visi degli alpini erano giovani, e puri.

    Si vedeva che erano contenti della sorpresa del tenente medico. I pezzi erano contorti e uno, quello che a Nova Postojalowka era stato sfondato da un carro russo mentre Bedeschi si buttava nella neve a un metro dai cingoli, era addirittura schiacciato. I muli erano magri, ma con un’espressione caparbia nel muso. Il conducente Scudrera stava fiero accanto alla sua Gigia. «Batteria avanti» ordinò il capitano. «Finalmente» disse Bedeschi.

    Franco Cascini, giornalista veneto, scrisse questo racconto in occasione della morte di Giulio Bedeschi, il 29 dicembre 1990, e lo inviò alla signora Luisa Vecchiato Bedeschi, moglie di Giulio.

    Finalmente insieme
    Sono immagini in bianco e neroquelle che riconducono la mentedi ognuno di noi alla Campagnadi Russia. Figure irriconoscibili,avvolte da coperte, pastrani, lembi distoffa incapaci di contrastare il gelidoinverno del 1942 che s’affacciò su ungennaio altrettanto tragico.Figure come sospese tra terra e cieloin un infinito bianco, freddo, surreale.Orizzonti che continuano oltreil campo visivo, senza limite alcuno.Paesaggi piatti, rinsecchiti e sempreuguali. Non un’altura.Quei ragazzi galvanizzati dauna propaganda menzognera,partirono con la tradottaa luglio: cominciava così laloro vicenda in terra russa.Più il treno macinava chilometri,più cresceva neglianimi la sensazione che daquei luoghi fosse impossibilefare ritorno.Racconta così Giulio Bedeschiin “Centomila gavettedi ghiaccio”, lo stordimentogenerale che prese tutti isuoi fratelli della Tredicesimaquando il capitano UgoD’Amico che nel libro diventaUgo Reitani, avvisòdel perentorio cambio diprogrammi. Gli alti comandiche avevano millantatouno spiegamento di forzesul Caucaso, cambiaronoincuranti i loro piani. Niente impiegoin montagna, ma un trasferimento apiedi di uomini, mezzi e muli verso ilDon. Era questo il destino della Julia edelle altre Divisioni alpine.Il sole accompagnava le nove, dieci oredi marcia quotidiane verso l’ansa delgrande fiume. Un caldo prepotente avvolgevala colonna; i nostri avanzavanonella steppa polverosa su un sentierolargo qualche metro, lungo all’infinito,sempre uguale, circondato da campidi girasoli d’un giallo acceso che sifaceva accecante nelle lunghe marce.Agglomerati di case dal tetto di pagliapunteggiavano, seppur di rado, la steppamonotona; attorno alle isbe capitavadi vedere vecchi, donne o bimbi rimastilì come abbandonati, strappati agliuomini vigorosi ormai al fronte a combattere.Un quadro di vita contadina,dove i colori si mescolano come inun dipinto di Turner: il cielo diventaterra in un orizzonte impercettibile, ilbagliore dorato dei girasoli si confondecon la luce accecante del sole. Eda lì a qualche mese, un alone biancodi neve e ghiaccio avrebbe offuscatotutte le cose, seppellendo ogni speranza,ogni soldato caduto. Ma non laferma volontà di fare ritorno.Gli uomini laggiù confinati cercaronodi scandire lo scorrere del tempodividendosi i compiti, creando unacomunità. Vissero come una famigliavincolata da un affetto spontaneoe da essa trassero la forza necessariaper andare avanti. Costruirono trincee,le allestirono, diedero ordine emetodo, parteciparono alla Messa etrovarono in quella morsainvisibile che si faceva viavia più stretta, momenti persorridere, alle volte persinoridere.Come la Tredicesima batteriadel Conegliano, unpiccolo reparto del Corpod’Armata italiano in Russia.La sua storia è tuttaviariconducibile a quella dimolti altri uomini che sitrovarono a vivere e combatterein una landa desolata.Nelle figure di D’Amicoe di Bedeschi ritroviamo imorti e i reduci. Coloro chesi spensero di stenti o d’uncolpo di fucile e i destinatia fare ritorno. Mutati persempre.Ugo e Giulio sono una partedi quel tutto. E questa èla loro storia.
    Mariolina Cattaneo
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    La Tredicesima batteria
    Il 29 dicembre 1990 il capitano Ugo D’AmicoReitani (13ª batteria, gruppo Conegliano,3º reggimento Artiglieria alpina,Divisione Julia) era appoggiato a una colonnavicino all’altare maggiore del duomodi Verona. Nel duomo entravano alpini anzianicon il cappello consumato e la pennafuori ordinanza, alpini più giovani grandie grossi e lo sguardo un po’ impacciato,generali con le penne bianche, gli alpini dileva del coro della Julia, stendardi carichidi medaglie. Il capitano Reitani guardava ilfunerale del suo ufficiale medico, il tenenteGiulio Bedeschi.«Ciao Giulio» gli disse quando se lo videvicino.«Finalmente – rispose Bedeschi – sono 47anni che non ti vedo!».«Lo sai che sto lontano – disse Reitani – hairaccontato così bene il mio viaggio».«Mi sei mancato moltissimo. Ma sei rimastolo stesso, sei un ragazzino!».Reitani aveva ventotto anni, Bedeschi settantacinque.«Scusa per la divisa – disse il capitano -Non ne ho più avuta una nuova».Portava un vecchio cappotto grigio-verdefoderato di pelliccia, un paio di valenki, glistivali russi imbottiti di feltro, un elmettoun po’ scolorito, lo zaino dietro la schiena.E sul cappotto c’erano tracce di neve e unforo vicino a una spalla.Il coro della Julia cantava “Stelutis alpinis”.Bedeschi era commosso.«Ugo, mi sembra di sentire i canti nel boscodi Argos, vicino al mare».«Era proprio in questi giorni. Era il ’41 ela notte di Natale il sergente Bartolan ciaveva portato un gavettino di cognac congli auguri della batteria».Il generale comandante il Corpo d’ArmataAlpino e i generali comandanti le BrigateAlpine stavano intorno al feretro copertodi fiori rossi.Reitani sorrise: «Come sei diventato importante!».«Ugo – rispose Bedeschi – loro non lo sanno,ma sono qui anche per te».Il capitano lo guardò con molta tristezza:«No, Giulio, con me sono rimasti solo gliartiglieri morti. A proposito, sai che oggi èquasi un anniversario?».Reitani, dopo l’8 settembre, era tornatovolontariamente in Russia e il 28 dicembre1943 era caduto nei pressi di Kiev.«Ugo, perché l’hai fatto?» chiese il tenente.«L’hai già scritto tu – rispose il capitano -per stare vicino ai miei alpini».«Ti ho invidiato, lo sai?» disse Bedeschi.Il coro della Julia ora cantava “Nikolajewka”.Reitani e Bedeschi tacevano. Vedevanouna lunga discesa innevata, in fondouna valletta, il binario della ferrovia, le isbedel paese e una chiesa. Gli alpini della Tridentinache andavano a morire sul terrapienodella ferrovia, i russi che falciavanocon barriere di fuoco. La sera che calavacol gelo della morte. Il generale Reverberi,in piedi su un carro armato, che grida“Tridentina avanti!”. Gli alpini, armati e disarmati,che calano urlando dal costone,si lanciano sui cannoni fumanti, travolgonole difese. Vedevano la neve rossa e sentivanogridare i feriti.Officiava Don Franzoni, Medaglia d’Oro ereduce di Russia. «Mi ricorda il cappellanodella notte di Natale davanti a Novo Kalitwa» osservò Reitani.«Sì – rispose Bedeschi – ma quello pregavapiù in fretta perché gli alpini stavano inginocchio sulla neve e c’erano 42 gradisotto zero».E appena finita la Messa vennero i russi.«Ma non passarono» disse Bedeschi conorgoglio.Reitani ne incrociò lo sguardo: «Sei ancoraun novellino – sorrise – qui non siamo piùorgogliosi».Ora il Presidente dell’Associazione Alpiniringraziava Bedeschi per ciò che avevafatto e per ciò che aveva scritto.«Anch’io ti ringrazio – disse il capitano – peravermi dedicato quel libro».«Eravamo fratelli» rispose il tenente.E i due rividero la sigaretta divisa fra loroa Golubaja Krinitza quando i russi eranoprossimi ai pezzi, le munizioni erano finitee sulla soglia della morte la Julia era arrivataa salvarli. Bedeschi sentì la voce diReitani che a Jvanowka gli diceva: «Ho ilrimorso di averti condotto qui» e la propriavoce rispondere «Ho voluto venire io».Una sola riga di trecento uomini distesi sullaneve era l’unica difesa di Jvanowka. I tedeschisi ritiravano, ma il maggiore Amerriaveva ordinato: «Restiamo sul posto. Questoè stato l’ordine ricevuto in partenza». Irussi arrivavano e gridavano.«Addio Giulio», aveva detto Reitani stringendola mano del medico con grandissimaforza. «Addio Ugo – aveva rispostoBedeschi – siamo stati fratelli».Le voci sommesse del coro cantavano dimille croci, di alpini che avanzano comeangeli bianchi.«Sono canz
    oni nuove – osservò il capitano- dobbiamo impararle anche noi».Il coro cantava ancora mentre li feretrousciva dalla porta principale. Dal piazzalegiunse uno squillo di attenti.«Vieni – disse Reitani – ho una sorpresa perte». Uscirono da una porta laterale che dàsu una strada minore.Su questa strada, in formazione allungataperché la via è un po’ stretta, era schieratala 13ª batteria. Non solo gli ottantadueuomini e i ventisei muli usciti da Nikolajewka,ma tutti i suoi effettivi, duecentotrentauomini, centosessanta muli, quattrocannoni. Le uniformi erano stinte, ma i visidegli alpini erano giovani, e puri. Si vedevache erano contenti della sorpresa deltenente medico. I pezzi erano contorti euno, quello che a Nova Postojalowka erastato sfondato da un carro russo mentreBedeschi si buttava nella neve a un metrodai cingoli, era addirittura schiacciato. Imuli erano magri, ma con un’espressionecaparbia nel muso.Il conducente Scudrera stava fiero accantoalla sua Gigia.«Batteria avanti» ordinò il capitano.«Finalmente» disse Bedeschi.

    Franco Cascini, giornalista veneto, scrissequesto racconto in occasione della mortedi Giulio Bedeschi, il 29 dicembre 1990, elo inviò alla signora Luisa Vecchiato Bedeschi,moglie di Giulio.