Dal golfo di Trieste al golfo del Messico il sogno di Massimiliano d'Asburgo

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    Miramar: il nido  d’amor costruito invano   è oggi meta  di turisti affascinati dalla  sua  storia.

    È il 10 aprile 1864, domenica mattina. Su un promontorio roccioso alto sul mare di Trieste austriaca, il castello di Miramar apre i suoi cancelli a quattro carrozze precedute da un battistrada a cavallo. Le attendono l’arciduca Massimiliano d’Asburgo e la consorte, principessa Maria Carlotta, figlia di Leopoldo I del Belgio, ventiquattrenne, figura aggraziata, sorriso accattivante. Dalle vetture scendono i componenti della delegazione messicana incaricata di proclamare l’arciduca imperatore del Messico. Sull’edificio, non ancora ultimato, viene innalzato il tricolore bianco rosso e verde dello stato centroamericano, gli stessi colori, avranno commentato i triestini accorsi numerosi per l’occasione, dei piemontesi che cinque anni prima sono entrati a Milano. L’insegna è salutata da 21 colpi di cannone. Chiamato familiarmente Max, il trentenne arciduca é il fratello minore di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, al quale si rivolgeva col titolo di ‘Vostra Maestà’ anche quando erano soli. Alto, occhi chiari e viso affascinante, barba a due punte, era amante del mare: dopo aver ricoperto in patria ruoli politici secondari, aveva assunto dapprima il comando della modesta flotta austriaca, apportandole importanti innovazioni. L’imperatore, che nutrirà sempre nei suoi confronti una gelosa diffidenza, lo nominò nel 1857, dopo le dimissioni di Radetzky, governatore del Lombardo Veneto, ma con esclusione del comando militare. A Milano si dimostrò contrario alle repressioni violente dei moti liberali e avviò con gli italiani una politica di collaborazione, attirando sia l’ostilità del gabinetto di Vienna sia quella di Cavour, che temeva una sua eccessiva popolarità (non escludendo certe sue idee un po’ avventate, come quella di piantare aranci in piazza San Marco e di trasformare il vicino campanile in un faro). Visti vani i suoi tentativi, chiese di essere esonerato. Anche la moglie Carlotta era stata accolta con simpatia a Trieste, dove aveva salutato la municipalità con un discorso in italiano, dopo essere stata un po’ snobbata alla corte di Vienna. Ambiziosa e determinata, possedeva quella forza di carattere di cui difettava il suo brillante ma più fragile marito. Sedotti entrambi dall’aspetto selvaggio e romantico del luogo, si dedicarono alla costruzione del castello di Miramar, per il quale non badarono a spese: il granito delle terrazze proveniva dal Tirolo e il calcare bianco delle torri dal Carso.
    Leopoldo tergiversò sui contributi richiesti: il genero lo definì ‘quel vecchio spilorcio’. Si insediarono in un primo padiglione appena terminato inaugurandolo con una grande festa per i bambini poveri, al suono della banda della marina. Da quel ‘nido d’amor costruito invano’, come dirà Carducci, si allontanano nella primavera del 1864, imbarcandosi sulla fregata austriaca ‘Novara’, diretta a Vera Cruz. A Roma, dove fan tappa, vengono salutati dai romani che li mettono in guardia: ‘Massimiliano, non ti fidare, torna al castello di Miramare’. Ma il destino si era già messo in moto. Nel balletto delle teste coronate che fan da contorno alla vicenda il deus ex machina è l’imperatore francese Napoleone III, che per salvaguardare l’influenza del suo paese sul continente americano e controbilanciare la crescente potenza degli Stati Uniti, inviò nella repubblica messicana una spedizione militare che cacciò il presidente Benito Juarez, sostituendolo con un governo fantoccio, in attesa dell’arrivo di un sovrano scelto in una corte europea. Al nuovo imperatore Massimiliano, spinto dalle migliori intenzioni, Napoleone III aveva garantito la protezione del corpo di spedizione, ma da entrambe le parti le illusioni non tardarono a cadere. L’ex arciduca non possedeva la tempra del dittatore e i suoi nuovi sudditi non volevano sentir parlare di imperatori. In Francia le sue azioni subirono un tracollo, anche perché il presidente esiliato riuscì a tirare dalla sua gli Stati Uniti, i quali poco gradivano la presenza francese sui confini e li invitarono a ritirarsi. Anche Carlotta, che cominciava ad essere affetta da turbe mentali, s’imbarcò per l’Europa e concluderà la sua vita in Belgio nel 1927. I 2.000 usignoli che il marito aveva fatto venire per lei da Trieste, appena liberati dalle gabbie, presero il volo e non se ne seppe più nulla.
    Massimiliano rimase solo e con forze insufficienti per opporsi ai repubblicani: fu catturato a Querétaro, processato e condannato a morte. Vani furono gli appelli alla clemenza rivolti a Juarez da Garibaldi, Victor Hugo e dallo stesso governo statunitense. Affrontò la morte con un coraggio e una dignità che riscattarono ampiamente i suoi errori. Chiese di essere fucilato secondo il protocollo, al centro fra due generali correi. A ciascun soldato del plotone d’esecuzione donò una moneta d’oro, con la raccomandazione di mirare bene (uno di loro vivrà per 111 anni, condannato per lustri a raccontare l’episodio). Il corpo di Massimiliano ritornò a Miramar con la stessa nave ‘Novara’ che l’aveva portato in Messico traboccante di entusiasmo e di speranze.