Albino Soppelsa è uno dei più anziani superstiti della ritirata di Russia. È nato il 31 agosto 1911 a Cencenighe Agordino, comune di 1.430 abitanti nelle Dolomiti bellunesi, dove vive tuttora con la moglie Maria, 95 anni, sposata il 17 maggio 1945. A poche centinaia di metri da lui abita Ottorino Soppelsa, un altro reduce di una decina d’anni più giovane. Secondo di quattro figli, a tredici anni andò a lavorare a Catanzaro, come manovale e tuttofare. “Lavoro qui non ce n’era e dovevo aiutare la famiglia – racconta – In Calabria sono stato quindici mesi poi sono andato a Milano a prestare servizio, sempre come manovale. Dopo essere rimasto per qualche periodo a casa mi hanno chiamato a fare il militare a Belluno, nel 7° Alpini.
Dopo diciotto mesi sono ritornato a casa. Erano i primi anni Trenta e dovevo adattarmi a fare quello che trovavo. Aiutavo mia madre nei lavori agricoli e nella stalla. Sono partito di nuovo per Milano fino a che mi è arrivata la cartolina precetto che mi imponeva di partire soldato per la guerra d’Africa. Era il 1935. Allora, su consiglio di un tenente, ho presentato domanda per partecipare al corso sciatori che si teneva a Sesto Pusteria. Richiesta che è stata accettata, e così non sono partito. Nell’agosto 1942 ho ricevuto un’altra cartolina che mi richiamava alle armi.
Ci hanno mandati a Longarone, dove siamo stati per quindici-venti giorni, e poi siamo partiti per Aidussina, allora territorio italiano della Venezia-Giulia, dove ci è stato consegnato l’equipaggiamento e a me, che ero conducente, un mulo. La destinazione era la Russia”. La Compagnia di Soppelsa apparteneva alla Divisione Julia schierata sul Don. I ricordi sono ancora nitidi (trascritti recentemente dalla nipote Milena). Albino ricorda il viaggio in treno “per niente semplice perché in ogni stazione c’erano i bombardamenti, ci mitragliavano e noi dovevamo sdraiarci per evitare i colpi. Arrivati a 30-40 chilometri dal fronte, dopo qualche giorno ci hanno affidato gli incarichi. Il mio era quello di portare armi e viveri durante la notte con l’aiuto di un mulo, una slitta e una decina di prigionieri russi. In aggiunta ai chilometri fatti durante il giorno spesso ne facevo altri dodici per andare a prendere la farina per il pane in un paese vicino. A causa del freddo, la minestra ghiacciava nelle pentole e la mettevamo in tasca a pezzi”.
Verso la metà di gennaio del 1943 fu dato l’ordine di abbandonare la base. Era iniziata la ritirata. “Ho camminato per tutto il giorno. Nevicava e mi sono riparato dietro il muro di una casa. Un gesto che ha permesso di salvarmi poiché erano arrivati i carri armati russi che sparavano a tutti indistintamente. I russi ci hanno chiuso in una sacca e siamo rimasti circondati una quindicina di giorni circa. La mia Divisione era completamente disfatta, nessuno ci impartiva gli ordini e ci guidava. Nel frattempo le divisioni Cuneense e Tridentina, insieme ad un reparto tedesco, avevano rotto l’accerchiamento, così si poté riprendere il cammino. Camminavamo notte e giorno e sentivamo il rumore dei carri armati e delle mitragliatrici alle nostre spalle. Una marcia durata oltre un mese effettuata a temperature di molto sotto lo zero (anche -42) e con un abbigliamento inadeguato. Arrivati a Gomel, nell’odierna Bielorussia, siamo restati una ventina di giorni nelle case del paese ad aspettare le tradotte che ci dovevano riportare in Italia.
Dei duecento alpini di cui era formata la mia Compagnia, siamo tornati solo in sessantacinque. Sul treno abbiamo viaggiato seduti sul fieno un giorno e una notte. Siamo arrivati in Ungheria e ripartiti per Bolzano e poi per Laives, dove ci siamo fermati per una quindicina di giorni di quarantena. Finalmente, nell’estate del 1943, ho potuto avere un permesso di quindici giorni per tornare a casa, trascorsi i quali sono dovuto ripartire per Gorizia dove sono stato mandato lungo il confine con la Jugoslavia a combattere ancora.
Con la firma dell’armistizio dell’8 settembre siamo dovuti scappare di nuovo e andare per le case a chiedere vestiti borghesi per non farci riconoscere e fare ritorno nei nostri paesi.” Negli anni che sono seguiti Albino ha potuto godere di una meritata serenità nonostante le fatiche del lavoro di muratore esercitato in Svizzera, in Belgio e in provincia di Bolzano e la responsabilità di crescere, insieme a Maria, i figli Gustavo e Danilo.
Il prossimo mese, per i suoi 100 anni, ha espresso il desiderio di andare, con i suoi cari, in qualche ristorante locale a mangiare polenta, luganeghe e capriolo e bere qualche buon bicchiere di vino. Auguri!
Luisa Manfroi