Cent’anni fa

    0
    159

    Articolo di tipo Articolo pubblicato nel numero di Gennaio 2019 dell’Alpino

    L’armistizio siglato a Villa Giusti, che sanciva la fine delle ostilità, entrò in vigore alle 15 del 4 novembre 1918, ventiquattro ore dopo la firma. La guerra era finita. Le trincee vuote e silenziose, finalmente in pace. La montagna mutata nell’aspetto dai feroci colpi dell’artiglieria, sembrava rispecchiare l’animo dei soldati che avevano combattuto oltre quaranta mesi di una guerra estenuante, durissima. La natura era tornata ad appropriarsi della neve, del fango, delle pietraie come dei boschi, mentre gli uomini stravolti, logori, devastati dalle immagini di guerra e di morte che ancora riempivano loro gli occhi, percorrevano idealmente in colonna, la via verso casa.

    Fu allora che scoprirono un Paese attraversato da forti dissensi, come spaccato in due, da una parte i nazionalisti, gli industriali e dall’altra i socialisti, le manifestazioni di piazza, i cortei operai che portavano a continui, violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. La Patria che aveva preteso i suoi uomini schierati sulla linea del fronte, tesi a un’esistenza di sacrifici e privazioni, li teneva ora a distanza, incapace di qualsiasi sentimento di riconoscenza nei confronti di soldati giovani e richiamati “plasmati dalla solitudine, dall’immenso silenzio, dallo sconfinato candore, dalla certezza della morte imminente”.

    Nel 1919 i congedi per smobilitazione arrivavano lenti, restituendo gli abiti civili ai protagonisti del grande conflitto, i quali si sentivano orfani di una nazione pervasa da un clima rovente inadeguata a provvedere ai bisogni di oltre tre milioni di smobilitati e alle necessità di reduci e invalidi di guerra. Un vento di crisi e cambiamento soffiava sull’intera Europa e quindi anche sull’Italia. La città di Milano che nella guerra appena conclusa si era guadagnata l’appellativo di “generosa” per l’incessante sostegno dato alle truppe attraverso la costituzione di comitati femminili assistenziali “pro soldati”, viveva un vero stato d’assedio.

    Eppure fu proprio il capoluogo lombardo il palcoscenico delle grandi trasformazioni politiche, culturali ed economiche italiane. La Madonnina, simbolo della città, nel gennaio del 1919, assistette alla visita del Presidente americano Wilson, alla nascita dell’industria dolciaria di Angelo Motta con il suo panettone; ancora vide l’alba del Partito Popolare Italiano di don Sturzo. E nell’estate di quello stesso anno, sotto il cielo della Milan cont el coeur in man si costituì l’Associazione Nazionale Alpini su un’idea del capitano Arturo Andreoletti che annoterà più tardi “congedato per smobilitazione a fine marzo 1919 e rientrato a Milano, ho subito sentito il bisogno di riprendere i contatti con i miei vecchi amici e compagni di scuola, pur essi da poco congedati dopo quattro e più anni dal richiamo alle armi per la guerra.

    Non avevamo ancora ripreso le nostre normali occupazioni ed indossavamo ancora l’uniforme militare in attesa che ci approntassero gli abiti borghesi; e trascorrevamo interi pomeriggi in interminabili andirivieni lungo i portici della Piazza del Duomo scambiandoci i ricordi, quelli lieti e quelli tristi, della guerra alla quale avevamo partecipato e dalla quale eravamo da poco usciti. E poiché ricordi e impressioni e nostalgie di quegli anni trascorsi nella naia, in piena comunità, sulle rocce o nelle nevi delle nostre Alpi, erano sempre vivi in tutti noi, i nostri pensieri ricorrevano insistentemente al come avremmo potuto da borghesi, (…) ritrovarci tutti riuniti, di ogni grado e di ogni condizione sociale, per costituire e conservare quel gran bene che è la Famiglia Alpina”.

    Con questo spirito, una mescola di amore e di istinto, venne posta la prima pietra della cattedrale che, nel tempo, sarebbe divenuta l’Ana. Tommaso Bisi, socio fondatore, si divertiva a dire la sua sulle pagine de L’Alpino, sotto lo pseudonimo di Giacomo Bogiantini, il prototipo dell’alpino: diretto, allegro e poco erudito. In un dialetto veneto piuttosto maccheronico (Bisi era milanese) scrisse così della prima riunione in Galleria: “Ah, cari amichi, che belle ore che mi avete fatto passare! E quel fiasco che il Presidente mi ha voluto pagare, come me lo sentivo ancora quando che ero in treno! Quell’Andreoletti che al primo momento mi aveva fatto suggessione, perché apena che ho fenito di domandarci al cameriere che ho ritrovato per la scaletta in dove c’è l’Ana, ecco che ti incontro nel corridoio lui che mi fa: «Lei chi è? Mi pare di conoscerlo…», con una voce di mezzo cicchetto, che io ho detto in fra me: «Questo qui deve essere il padrone della melonaia». Invece appena che ci ho detto chi ero, mi fa: «Come? L’è lu el Bogiantini? Oh, bravo, ch’el vegna chi!». E mi spinge dentro in una saletta in dove che c’era da una parte un Alpino di bronzo in piedi su una colonna che tira un sasso, dall’altra un gran quadro con una sfilsa di bricchi assortiti, e in del mezzo una fila di gente metà borghesi metà Alpini, che un po’ scrivevano, un po’ se la contavano su, un po’ bevevano.

    Dopo non mi ricordo più bene come è andata, per via che nella sala da basso suonava la musica e veniva su il fumo e l’odore di donnette di lusso, di modo che fra l’una e l’altra cosa e specialmente per quel tale Chianti che ci ho detto, sono rivato che non capivo più niente. A basta cari amichi, speriamo di rivederci presto. Intanto farò tutto quello che posso per far propaganda all’Ana da buon Alpino. Adesso che vi conosco, vi voglio più bene di prima. Davvero». In un momento storico di grande criticità, attraversato da luci e ombre, un pugno di uomini seppe tener fede al valore ancestrale di Patria, dimostrando come la forza dell’Associazione dimorasse nell’unità di intenti, poggiasse sull’umana dirittura morale, sulla coerenza nel perseguire gli scopi associativi. Una condotta che in molti identificarono con l’immagine del tricolore esposto al finestrone del Grande Caffè Italia, in Galleria Vittorio Emanuele, prima sede del sodalizio.

    “Per molto tempo esso fu – ricorda Andreoletti nelle sue memorie – il solo simbolo della Patria al centro della città”. Continue minacce ed intimidazioni di facinorosi e persino della Questura imponevano di ritirare la Bandiera. “Fummo costretti a costituire fra noi dei turni volontari di difesa anche nel corso di molte notti: fu una gara, quasi un onore di parteciparvi. Ma quella Bandiera non fu mai ritirata. Abbiamo saputo resistere sia pure con qualche sacrificio e con qualche rischio, ma con volontà e fierezza indomabili e con la sicura coscienza di fare il nostro dovere”.

    A un secolo da queste meraviglie, occorre continuare a spendersi per preservare quel patrimonio di umana fratellanza, d’allegria e solidarietà fino ad ora mai disperso, affinché l’Ana rimanga “un campo chiuso e sconfinato, un’immensa famiglia, (…) una fraternità che non conosce tregua o ruggine, una storia che continua…”.

    Mariolina Cattaneo