Ritornare sui luoghi della memoria significa riabbracciare i nostri padri, i nostri nonni. I nostri veci. È come ritrovarli uno ad uno in un peregrinare consapevole e sereno. E gli alpini lo fanno, da quasi un secolo. Ritrovano i morti di Adua, della Libia, delle Tofane. I morti di Grecia e di Albania. Le vittime della prigionia, dei campi di sterminio.
Coloro che cedettero il passo al gelo, addormentandosi sui ghiacci della steppa russa. E coloro che oggi in Afghanistan rinunciano alla gioventù per la pace. L’Associazione nasce e vive per questo. Per rimanere unita e per ricordare. Ecco perché, a pochi mesi dalla fine del suo mandato, il presidente Corrado Perona decide di tornare a Rossosch accompagnato da Sebastiano Favero, l’ingegnere prestato alle grandi opere associative e Lino Chies, custode da tempo dell’amicizia con i fratelli russi.
Un viaggio impegnativo, non fosse altro che per gli spostamenti: diversi aerei, lunghe ore di pullman e tre di fuso orario. Prima tappa Voronezh. Incontro con il professor Filonenko per vagliare un progetto russo sottoposto alla nostra delegazione che tuttavia presenta delle difficoltà di realizzazione per il notevole impegno economico che rappresenterebbe per l’ANA. Siamo nei pressi dell’ansa del Don. La nostra delegazione tra terra e cielo. È rimasta solo qualche chiazza di neve qua e là. L’erba ancora acerba eppure forte, si fa spazio e cresce.
Spunta dalla terra fredda che si allarga fino ad abbracciare il cielo, che qui sembra più vicino. Pare lo si possa sfiorare allungando una mano. È la steppa russa. I nostri posano per una foto ricordo. I volti pensierosi. È un’esperienza mistica ritornare quaggiù, sempre. Non importa quante volte tu ci sia stato. Qui ci sono gli alpini. Ma la realtà desta, scuote riportando il pensiero al tempo presente: il viaggio riprende. Ecco Rossosch. Ad attendere i nostri ci sono il capo dell’amministrazione Juri Misankov e il capo del consiglio comunale Eduard Markov. Nell’incontro si parla dei festeggiamenti che si terranno nel mese di settembre, per il ventesimo dell’asilo ‘Sorriso’. “Non aspettano altro che di averci loro ospiti” dirà il presidente Perona al suo rientro. C’è il tempo per una visita alla città e per una breve cerimonia religiosa celebrata dal Pope. Ecco l’asilo. Sorride: è ordinato, pulito e molto frequentato. La direttrice Paptiova, il professor Morozov sono persone eccezionali come le maestre che vi lavorano.
Dice Perona: ‘Possiamo esserne felici’. Ora si è di nuovo sulla strada in direzione Livenka: è un richiamo che non si può ignorare, è troppo forte. Per noi si chiamerà sempre Nikolajewka. Il sindaco Igor Shishljannikov attende l’arrivo della delegazione. Insieme a lui la sua vice Marina Mitusova: è ancora vivo in lei il ricordo dei giorni trascorsi a Brescia durante le celebrazioni legate al settantesimo di Nikolajewka. Ma gli alpini hanno lasciato un segno anche nella memoria dei vecchi russi che ora è quella dei giovani: il presidente dei veterani di guerra ne è testimone. Nell’incontro organizzato dalle autorità locali, racconta il ricordo di sua suocera che durante la guerra viveva sola con quattro figli. Il marito era al fronte, combatteva contro gli italiani. Fu allora che gli alpini entrarono nella sua vita, sottovoce. Umanamente. Ogni volta che potevano condividevano con lei e con i suoi bambini il rancio, racimolato qua e là, scarso e poco saporito. Ricorda che erano due ufficiali e due alpini. ‘La testimonianza di una popolana vale più di un trattato storico’.
Si chiude così l’incontro ufficiale. Fuori, per Livenka, visita a quella che fu una chiesa e che poi, sconsacrata dal regime, divenne stalla. E in guerra ospedale: rifugio per i nostri soldati feriti. Lì vicino i luoghi della ritirata. Era il 26 gennaio 1943. Per i sopravvissuti a quella giornata di battaglia aveva inizio l’ennesima sfida: il ritorno a baita. Bisognava camminare ancora. Attraversare un ponte, lo stesso dinnanzi al quale si ritrova oggi la nostra delegazione. Quel ponte che la città di Livenka ci chiede di rimettere a posto, meglio di rifare. È malconcio, sembra stare in piedi per miracolo. Ma ha un significato: i nostri alpini, i soldati italiani attraversandolo fecero un passo importante sulla strada verso casa. Le mitragliatrici tacevano, solo da lontano ancora qualche colpo d’artiglieria. Isolato. L’adrenalina della battaglia alimentava le gambe stanche, sfinite. E si procedeva perché l’inferno era ormai alle spalle e ogni passo era un passo in meno verso la quiete del focolare.
Ora tutto è cambiato. Gli scenari, i rumori, le speranze. Anche quel ponte: ieri passaggio verso la salvezza, oggi simbolo d’amicizia. Il Consiglio Direttivo Nazionale sta studiando la proposta. Sono tempi difficili e occorre prima portare a termine gli impegni economici intrapresi, come l’asilo a Cento. Ma se quel sogno sarà infine progetto, allora vedremo gli alpini partire verso le sconfinate pianure senza tempo. E il finale è già scritto. Sarà un ponte che unirà due lembi di terra, ma non solo. Sarà molto di più. Esso legherà indissolubilmente i nostri morti ai loro morti, noi a loro. Il Presidente alla sua Associazione. Ed essa a lui. Un’opera che ha la povertà nobile propria delle cose semplici eppure indispensabili. Poi arriverà settembre e ci fermeremo in tanti a guardare quei luoghi. Non ci saranno montagne a disegnare l’orizzonte, ma una cittadina che con fatica costruisce il suo futuro. Sulle orme di un passato che unisce.
Mariolina Cattaneo